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Warszawa, il romanzo di una città e di una nemesi

Creato il 28 dicembre 2010 da Edizionialtravista
Warszawa, il romanzo di una città e di una nemesi

E’ uscito nella collana Vaudeville delle Edizioni La Gru, il romanzo dal titolo Warszawa vincitore del premio Giovane Holden di Torino. L’autore, lo scrittore esordiente Fabio Elia, che ha vissuto tra Mosca e la capitale polacca, racconta così il suo libro: “E’ la storia di un polacco che insegue un turco. Sullo sfondo Varsavia, giustappunto. I due si chiamano entrambi Felix. Felix il polacco non ha idea del perché insegua e del perché voglia uccidere Felix. Quell’altro Felix, dal canto suo, non ha idea del perché fugga col cuore in gola. Una volta che il polacco furioso raggiunge il turco …” .

Per chiunque sia alla ricerca di una letteratura capace di seguire una creatività che come un treno impazzito corre fino ad uscire dai binari del mondo conosciuto per esprimerne uno disincantato, disturbato, cinico e ironico.

collana: vaudeville 978-88-97092-04-9 pagine: 132 15 x 21 cm – brossura Dicembre 2010 http://www.edizionilagru.com/warszawa.html

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COMMENTI (1)

Da Federico
Inviato il 10 ottobre a 16:21
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A due anni dalla sua pubblicazione, di Warszawa ho letto parecchie recensioni o presunte tali. In nessuna ho riscontrato la limpidezza di visione che mi aspettavo da chi dovrebbe essere abituato a leggere (tra le righe dei) libri. E nemmeno nei commenti di chi ha semplicemente letto il libro, senza doverne per forza scrivere, ho visto porre l’accento sull’aspetto che a me per la verità pare lampante. Tutti a soffermarsi sull’assurdità del testo, sullo stile eccentrico e spossante, sui ghirigori fini a se stessi, sulla confusione insomma e sulla trascurataggine del testo, scritto a parer di molti senza la minima coscienza di un’architettura e tantomeno di un contenuto. Opinioni tutte valide, certo. A me sembra però che leggere e giudicare Warszawa di Fabio Elia senza comprendere la metafora cui soggiace, sia come sputare su un piatto di spaghetti perché si credeva fossero cubici. La metafora è tutta qui: Felix il turco non è inseguito da Felix il polacco che metaforicamente, poiché il vero cacciatore è un destino che non si conosce, ovvero il destino personale che ciascuno di noi ha in serbo per sé e che ciononostante non potrà mai aver la certezza di conoscere; un destino, il proprio, che spesso pare ce l’abbia con noi, pare strangolarci man mano sempre di più, con il preciso fine di levarci la vita, un giorno. Ecco, e che cosa fa Felix il turco scrivendo il libro (che è poi il libro stesso di Fabio Elia)? Sostituisce il viso pallido e la cresta bionda di Felix il polacco al suo proprio destino, e lo mette alla caccia di se stesso: chiaramente, rendendo l’inseguimento cento volte più avvincente e intenso di quanto avvenga nella realtà. Non è forse vero che il nostro destino c’indirizza su percorsi i quali, se ci pensiamo, mai abbiamo desiderato né scelto d’intraprendere? Ed è lungo questo cammino inconsapevole, che il nostro destino ci uccide usurandoci inesorabilmente. Felix il turco con la sua trovata ha fatto trenta, e allora fa trentuno: decide non solo d’immergersi in una fuga mozzafiato, ma di pervenirne all’apice: la morte, ovvero l'emozione più grande, l'unica in grado di offrire una rivincita veramente sublime nei confronti del subdolo ingrato destino. Ma l’intenzione che gli muove la mano è troppo eccitata da gestire. Così egli finisce per scrivere un libro in cui raggiunge sì il suo scopo, ma lo fa a scapito del popolo polacco, ridicolizzandone i difetti, gonfiandone a dismisura le manie e facendone il verso alle tradizioni. Quello del turco è un gesto arbitrario, dettato da un desiderio personale e da nient’altro. Proprio come il movente di Raskol’nikov di Delitto e castigo: l’eroe di Dostoevskij agisce arbitrariamente per provare a scavalcare le regole degli uomini ordinari, quello di Elia (ben più umilmente) lo fa per vivere (e accontentarsene) un brandello di vita veramente originale. Alla fine del romanzo russo, Raskol’nikov si pente del suo gesto perché non riesce a sopportare ciò che ha fatto; pentimento il cui simbolo avrebbe dovuto essere, secondo il consiglio di Sonja, l’inginocchiarsi in Piazza Sadovaja, nel bel mezzo del mercato dove tutti l’avrebbero udito gridare “Io ho ucciso!”. Cosa che però non avviene. Non avviene questa sorta di “pubblicazione del pentimento”. Esso resta un sentimento intimo dell’eroe, con il quale dovrà convivere in carcere. E allo stesso modo non avviene il pentimento di Felix, il turco che ha scritto “Warszawa”. L’epilogo del suo libro, in cui si pente della leggerezza e dell’ignoranza con cui nel suo testo ha trattato il popolo polacco, non è abbastanza convincente per il suo editore, che gli cassa l’idea e gli propone un ultimatum: o cancella quella lagna finale, assolutamente slegata dal contesto e incoerente con lo stile del resto del libro, o il libro non verrà pubblicato. Felix non scende a compromessi, e decide di non pubblicare. Non avviene dunque la “pubblicazione del suo pentimento”. Il turco non espia la propria colpa pubblicamente, bensì intimamente e in silenzio, rinunciando a quella che poteva essere l’effimera gloria letteraria, per lasciarsi carezzare dalla brezza della vita reale, magari meno clamorosa ma certo più autentica. Ecco, questa è secondo me la chiave di lettura più giusta (per quanto ve ne si possano scorgere molte altre). Se leggerete Warszawa correndo su questi binari, state pur certi che il treno della vostra lettura non deraglierà, e non vi ritroverete spaesati tra macerie di parole infilate casualmente una dopo l’altra.

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