Vivere da persona coerente, necessita -paradossalmente- la ferma rivendicazione del diritto soggettivo all’incoerenza pertanto adotto come regola aurea: non definirti in effimeri e claustrofobizzanti cliché autorappresentativi.
L’artista oggi, lo vedo alla stregua di un ‘animale’ sensibile e ferito, un centro di consapevolezza sofferente che vive l’odierno parossismo sociale, autorelegato in uno stato di rassegnata -ma pursempre non domata cattività. E’ in tale contesto socio-affettivo che, anche il solo alzare un pennello o una miretta, diventa per l’artista uno sforzo psicologico di rilievo ma contestualmente gesto ribelle, stato permanente di rivolta. All’arte adilemmatica e “felice”, ho sempre opposto uno scetticismo istintivo, perché l’arte non infrequentemente è un’arte infelice e non avrebbe molto senso se fosse solo entusiastica riproduzione del “bello”. L’artista è fondamentalmente un “riformatore”, un impavido produttore di forme e mondi che verranno.
Da scultore anche orafo, ho sempre ritenuto che un ‘fare’ artistico non ne inficia l’altro anzi, talvolta si sorreggono egregiamente fra loro contrassegnando addirittura gli stilemi dell’artista. Ora, non volendo categorizzare, molti artisti e in particolare gli scultori del primo e secondo Novecento, si sono spesso confrontati e lasciati sedurre -almeno per un arco di tempo più o meno breve del loro iter artistico- dall’esperienza forse “civettuola” del micro modellato, arrivando persino ad applicare al genere-gioiello delle tecniche creative inedite. Solo per citarne alcuni a mio giudizio fra i più significativi, mi vien da ricordare, Giacometti, Ernst, Arp, Fontana, Braque, Afro, Man Ray, Capogrossi, Melotti e molti altri ancora. La tendenza di uno scultore all’incursione nell’arte orafa, generalmente rappresenta una sorta di sfida creativa o un semplice vezzo: potrebbe identificare l’attitudine a concedersi una sorta di imprimatur, quello di estendere l’identificabilità dell’imprinting personale ad altri linguaggi espressivi. E questo per quanto riguarda il passato. Alcuni artisti esprimono la loro arte direttamente solo attraverso il gioiello, in assoluta licenza comunicazionale; lo fanno avvalendosi anche dei materiali più desueti e disparati, in ciò spesso motivati forzosamente dall’assurda impennata dei costi delle materie prime. L’artista sembra così ottenere un doppio obiettivo: creare e boicottare provocatoriamente la “nobiltà” pecuniaria, mercantile delle gemme e dei metalli preziosi. Il concetto in sintesi sarebbe: smitizzare il gioiello di quel suo venale valore sovrastrutturale e svincolarlo implicitamente dall’esibizionismo formale dello status-symbol. E’ così che l’artista cerca di mantenere il valore mitoligizzante del ‘manufatto’, integrato da quei suggestivi valori simbolici nei quali l’uomo si identifica già a partire dal momento originario della genesi dell’Arte. A livello produttivo, la ricerca di una “neo-cosmogonia” comporta progettazioni specifiche, lontane dal prodotto stereotipato ma in simbiosi con la realtà sociale nella quale ci troviamo a vivere tutti. Il gioiello, da questo punto di vista, si fa prodotto di consumo allo stesso modo di quei generi di massa che hanno un ruolo primario nella nostra vita, un ‘qualsiasi’ altro prodotto insomma, ma con un carattere personalizzante nei suoi valori di contenuto ed estetica, quei valori che il consumatore stesso, in piena libertà ed autonomia, vi proietta. La ripresa di moduli formalmente primitivi (o solo primari) sta a significare quanto l’uomo preferisca ri-scoprire quei valori simbolici dai quali è sorto. Ma questo discorso va inserito nel clima culturale che caratterizza molti prodotti artistici, indipendentemente dalla scelta comunicativa. Personalmente, resto fermamente saldo all’interno del mio ideale fidiaco, legato ancora- per quanto concerne l’arte orafa- ai virtuosismi di un sicuro modellato e allo stupore ridondante che m’incute il materiale prezioso. Amo ancora ardire concetti estremi (quindi molto spesso con risultati invendibili), attraverso una narrazione esaltata e “caricaturizzata” dalla stessa materia preziosa. Come dire, una provocazione che amplifica se stessa all’ennesima potenza. Tuttavia, essendo per ragioni personali e profonde, un artista volutamente auto-relegato in una sorta di marginalità autistico-artistica, la ‘provocazione’ -seppure artisticamente e filosoficamente sostenuta- è un lusso comunicazionale e professionale che non sempre posso permettermi, anche se la mia resilienza alle pressioni del “mercato” ha ancora tutta la forza ideale ed emozionale di quelle che si chiamano ancora e sempre, le ragioni del cuore.
Tornando all’arte contemporanea, ritengo che solo arrestando l’invasione arrogante della politica nell’arte -una politica incompetente, mortificante e lesiva- si potrebbe proseguire nel tentativo di individuare e poi riparare le enormi falle, sia conservative che produttive, aperte in questo patrimonio collettivo che è la nostra Cultura (la Cultura che, non dimentichiamolo mai, è l’anima di un Popolo che si presenta agli occhi del Mondo).
Oggi l’Arte, vedi anche l’ultimo vergognoso scandalo emerso alla Biennale, è divenuta follia, la versione fenomenologica di un mercato non-sense, mercanteggiata appunto, condizionata e piegata dalla committenza politica, che sembra esserne il referente esclusivo, quasi in una vincolante relazione da ‘monopolio di stato’. Non so se e quando avrà termine questo malcostume, e dubito che nemmeno l’avamposto più audace della sociologia contemporanea riesca, al momento, ad avvertirne congrui segnali di rinnovamento, di purgazione e ravvedimento. Per cui bisogna resistere nel proprio osservatorio e monitorare il fenomeno impazzito, occupandosi nel frattempo anche di altro. E poi: coltivare idee, fissarle comunque sulla carta, comunicare e sperare persino in una nemesi storica che riesca a bonificare questa mostruosa barbarie di oggi, onnipresente e onnipervasiva. Non intravedo quale sarà il destino dell’arte. Non possiedo doti di preveggenza e, comunque, non prevedo un’arte robotica, giusto per indicare una metafora evocativa di un futuro prossimo. Potrei solo supporre -azzerando contestualmente la prospettiva di quell’alienante immediatezza artistica indotta, che è propria dei ‘click’ o dei ‘play’- un’ ipotesi di epilogo dell’artigianalità fisica intrinseca al manufatto, ancora oggi specifica competenza tecnico-manuale per la creazione di un qualsiasi lavoro pittorico o scultoreo. In quest’età storica dello star-system, Arte potrebbe divenire il solo Pensiero dell’artista più rappresentato e celebrato; motivo per cui la ricerca potrebbe vertere su come renderla accessibile, condivisibile e “materializzabile” all’artista stesso, come origine produttiva e strumento di consenso, ed al pubblico più diffuso, sia come fruitore che come utente del prodotto artistico. Insomma, un hic et nunc dell’opera d’arte, che diviene oggetto di consumo ravvicinato e rapido, quasi nell’attimo stesso del suo concepimento. Da questo nuovo intendere l’arte, “dialogata” e forse superficialmente trascendente, potrebbero nascere degli happening ex-novo puramente cerebrali, eufemisticamente “sciamanici”, dove il fresco tam-tam della rete, sicuramente, sempre più svolgerà una funzione divulgativa preponderante. In forza di tutto ciò, è altresì probabile -e lo spero- che l’anacronistica triangolazione artista-critico-gallerista, venga risolutamente divelta e riconsegnata agli annosi paradigmi del passato.
Io ipotizzerei, ancora, un’ Arte come Arte filosofica, sinergica e di portata democratica (stavo per dire, d’assetto “maoista”). I nuovi artisti potrebbero essere quei pensatori che sapranno esser coinvolgenti attraverso le loro intuitive premonizioni sociali, fruttate di “testa”. L’arte e l’artista, con gli annessi idolatrati attributi che vengono loro riconosciuti, verranno depauperati, demitizzati, trasmutandosi e sostanziandosi in amabili dopolavorismi buoni per ogni inguaribile “artholic”.
Altre apocalittiche e presumibili demolizioni di natura diversa, di cui forse saremo inerti spettatori, avranno la qualità assoluta di essere innanzitutto collettivamente subite e compiante, e poi da tutti noi, faticosamente, ricostruite. Ed eccola la neo-origine, tutta inglobata nel nucleare significato creaturale di una parola, della parola di ogni ‘inizio’: ricostruzione. Solo da una vera opera di “ricostruzione”, l’arte, abiurando l’incancrenito ciarpame dei vecchi marchingegni nepotici, immeritocratici, politici, elitari e mercantili, potrebbe tornare a rifulgere vidimando una ricreata soggettività artistica di un’inedita poeticità estetica e sociale. Mi piacerebbe davvero ricompattare l’entusiasmo compresso-represso degli artisti e sconfiggere quel loro senso d’appartenenza al mondo- concusso da uno svuotamento anedonico decimante- convogliandolo in una corrente dal Manifesto scarno, azzerante e ottimista, e da qui ripartire ‘primitivamente’ con un linguaggio rigenerato e puro, scevro da compromissioni interferenti: il Formattivismo. Quel romantico Sogno, violato e perduto, dovrà tornare all’origine dei nostri unici possedimenti stabili; dovrà tornare all’origine.
Giorgio Brunelli
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Giorgio Brunelli. Al mondo dal 1962. Terminata l’Accademia di Belle Arti, nel 1987, apre a Verona un laboratorio orafo. Nel 2005 la Grande Crisi lo costringe ad abbassare le saracinesche dello stesso. Inizia quell’anno il suo sposalizio con le occupazioni saltuarie. Di natura esteta, modella e dipinge e, da non scrittore, al favor delle suggestioni delle tenebre, scrive qualsiasi cosa gli si ficchi nella testa. Si definisce misantropo e se ne compiace; carattere scabro non conforme ai modelli convenzionali. Non perdona nulla, non si perdona nulla. Ora è vivo e gli basta esserlo; vive. Non pensa al domani come non pensa all’oggi; men che meno a ieri. E ogni pagina di vita che volta, in fondo è una pagina che già ha voltato il giorno precedente. E’ redatore del blog : www.neobar.wordpress.com. Altre sue opere, all’indirizzo: http://www.millepagine.net/saggi/filosofia/de-sprofondis/
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