Una delle ragazze di quella sera credeva fossi un modello! Mah…
Ultimo giorno, mattina della partenza
Oltrepassata la robusta porta in legno di ciliegio, sigillata da una chiusura a chiave magnetica, si entrava in una delle stanze del quinto piano, vista mare, di un mediocre albergo Riminese. Per terra, sulla moquette blu notte a pois dorati, c’erano disseminati una miriade di capi d’abbigliamento stropicciati in un susseguirsi continuo fino ai piedi del letto. Una scarpa destra, con ancora i lacci legati in un classico e inconfondibile doppio nodo faceva la guardia all’ingresso, sperando di rivedere, prima o poi, la sua gemella sinistra. Subito dopo, antistante la porta del bagno, un giubbotto di pelle nero era adagiato a terra. Girato di spalle e con le maniche allungate, sembrava un soldato morto sul campo. Più avanti, tra un calzino e una maglietta si arrivava al letto, da cui sbucava, dal lato sbagliato, un piede nudo. Un ragazzo dormiva scompostamente lungo la diagonale di un letto matrimoniale. Percorrendo tutta la sua figura inanimata, si potevano confrontare i pezzi del puzzle di vestiti che non erano sulla moquette in modo da ricostruire l’abbigliamento originale. Tutto sembrava tranquillo, fino a quando, l’indice della mano sinistra non emise una sorta di breve tic…
Ero in un luogo buio, con musica assillante e luci intermittenti. Seduto su un divanetto, conversavo con diversi ragazzi di assurde politiche economiche. In una mano avevo un cocktails e con l’altra carezzavo la pelle bianca del divanetto a due posti. Stranamente però, non sentivo la liscia consistenza della pelle sotto le dita. Al contrario, percepivo una sensazione di ruvidezza, come se la pelle fosse in realtà stoffa. Continuai a giocare con la mano sul bracciolo, isolandomi dal resto della scena. Non riuscivo a comprendere la strana alterazione sensoriale tra vista e tatto fino a quando il mio dito non incontrò un disegno in rilievo che, sul divanetto in pelle bianca dell’oscuro locale, non c’era.
Fu allora che aprii gli occhi e vidi la mia mano sinistra che strusciava sul copriletto del materasso matrimoniale della mia camera d’albergo. Lentamente continuai a delineare i bordi del fiore disegnato sulla stoffa per ristabilire il connubio tra vista e tatto.
“Era un sogno” pensai, poi sopraggiunse il mal di testa e il sogno non fu più una spiegazione plausibile.
Mi alzai, mettendomi a sedere. Mi resi conto di essere ancora, stranamente, vestito. Metà dei quali però, erano sul pavimento. “Cosa diavolo è successo?”. Tolsi l’unica scarpa che avevo per liberare l’altro piede ancora imprigionato dal mio classico doppio nodo. Mi spogliai completamente dai vestiti sgualciti e li buttai per terra insieme con gli altri. Passai davanti allo specchio a muro della camera. Volevo controllare se era tutto al proprio posto, poi mi buttai sotto la doccia.
Uscii dal bagno ancora tutto gocciolante, con un asciugamano bianco legato in vita. Con un altro asciugamano mi frizionavo i capelli umidi finché il mio sguardo non fini su un piccolo pezzo di carta sul comodino. Qualcuno aveva scritto qualcosa a penna e l’aveva lasciato lì, in bella mostra. Lo presi con le mani ancora umide e notai che era lo stesso bigliettino che mi aveva dato il tassista la sera prima e che io avevo conservato nel portafoglio. Lo lessi:
“Fantastica serata Ciro,
La prossima volta meno alcol però eh!
Ti abbiamo riportato noi in albergo…
Chissà! Ci si rincontrerà prima o poi!
Addio!”
Incredulo lessi e rilessi ancora quel bigliettino. “Chi cavolo sono questi?! E cosa cavolo ho fatto ieri sera?!” I miei pensieri non si davano pace alla ricerca di una risposta. “Come hanno fatto a riportarmi qui?”. Guardai sul comodino e vidi la chiave magnetica della mia camera con su scritto il nome del mio hotel. “Sicuramente usando quella…” pensai.
Guardai l’orologio e capii che non avevo tempo da dedicare alla ricerca dei ricordi perduti. Di lì a breve avrei avuto un treno che mi avrebbe riportato a Milano. Dovevo sbrigarmi per non perderlo. Mi rivestii in fretta e preparai la valigia. Fortunatamente non mancava niente. Quei ragazzi che mi avevano accompagnato, dovevano essere dei bravi ragazzi. Diedi un ultimo sguardo alla stanza e scesi nella Hall.
Alla reception c’era una ragazza dai capelli bordò. Mi diede un’occhiata mentre m’avvicinavo e mi face un sorrisino. Di solito, i receptionist sono sempre a conoscenza di ogni cosa avvenga nel proprio albergo. Ce l’hanno nel codice genetico come le portinaie o i barbieri. Ero tentato dal chiederle qualche notizia su ieri sera. Ma, a guardare quei dolci occhi maliziosi, mi vergognavo miseramente a chiederle come dei tizi sconosciuti mi avessero trascinato in camera la notte prima. Sicuramente avrà visto, se non lei, qualche collega. Pagai. Mi rifilò il resto condito dal solito sorrisino. Uscii dall’hotel con metà della coda tra le gambe. Per qualche strana e insulsa ragione malinconica, preferii fare a piedi il tragitto fino alla stazione, invece di prendere il taxi.
Venne a piovere come se non ci fosse stato più un domani.
Corsi per ripararmi sotto un balcone. La stazione era a pochi metri ma non potevo superare la colonna d’acqua che veniva dal cielo. Osservai Rimini… la fantastica città teatro di mille avventure. Solo e stanco mi appoggiai al mio trolley con l’acqua che veniva giù a pochi centimetri dal mio naso. Dal balcone sopra di me sembrava che ci fosse una cascata che veniva giù da chissà dove. Vedevo l’immagine della stazione come attraverso una gigantesca bottiglia di vetro trasparente. Ombre e bordi sfocati. Passanti anonimi. Vento… Mi sentivo impotente davanti a quell’onda invisibile di ricordi che mi stava travolgendo. Vedevo dinanzi a me il piccolo Ciro diciassettenne che, con la sua cartella Seven, usciva dalla stazione di Rimini. Tutto era sfocato… proprio come il ricordo… proprio come la pioggia. Il mio volto sorridente nel rincorrere i miei amici più grandi che mi avevano trascinato con loro in una magica vacanza. In testa nessun pensiero e sulle spalle chili di alcol… Sorrisi. Pantaloni larghi, canotta… il caldo asfissiante di quei giorni. In testa mille ragazze. Molte sbagliate… molte sofferte. Delusione. Osservavo il mio alter ego fantastico camminare a stento. Le scarpe erano di una misura più grande e a volte inciampavo nei gradini. I miei amici attendevano al di là del marciapiede. Avevo paura di attraversare la strada con quel pesantissimo zaino. Guardai a destra e poi a sinistra proprio nella mia direzione… ci fissammo. Io e il ricordo di me. Sotto la pioggia, dietro un muro d’acqua trasparente.
E il ricordo svanì…
Come la pioggia che si dissolse…
Uscii dal mio riparo e camminai verso la stazione.
Guardai un attimo la lunga via che portava diritta al mare.
Cos’è successo? Dove son finiti i miei sogni?
Tutti rotti…
Solo uno son certo di averlo realizzato:
Veder spuntare l’alba sul mare di Rimini…
Perché gli altri ho smesso di realizzarli?