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Welcome to Hope. Nel bel mezzo di un gelido inverno

Creato il 09 gennaio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Welcome to Hope

Nel bel mezzo di un gelido inverno

[...]Quella che alcuni critici hanno chiamato

l’allegria critica e pensosa dietro la quale

si ode il battito di un cuore “

era solo un gelo disperato che mi rendeva

simile a una marionetta.

Terribile poi il momento in cui il filo si spezzava

e io ritornavo in me.

Heinrich Böll, Opinioni di un clown

Amleto morente, drammaturgo ed attore protagonista -stricto sensu- dell’ominima tragedia della propria esistenza, sentenzia: «Il resto è silenzio».

Alessandro Catalucci, drammaturgo ed attore protagonista del libero adattamento del film diretto da Kennet Branagh nel 1995 intitolato In the Bleak Midwinter ( tradotto in italiano Nel bel mezzo di un gelido inverno) dal 18 dicembre 2012 ( in replica fino al giorno 23 dello stesso mese) ha dato corpo, voce e senso al Principe di Danimarca, accogliendo nel nuovo nome di Joe, ogni sera, gli spettatori del Teatro dei Conciatori (Via dei Conciatori, 5, Roma) con un ideale quanto, senza alcuna retorica, estremamente sincero augurio di benvenuto.

…Un Welcome to Hope… davvero speciale.

Ad accompagnarlo, riversati tra il pubblico del foyer da cui ha inizio l’opera, un nugulo di attori nivei in volto e vestiti in abiti illuni (come la cromia delle labbra delle sole donne e pseudotali in scena), si aggira con espressione e postura ora serena e spensierata, ora timida ed impaziente, attendendo di entrare in sala, ma un passaggio di mano in mano di una matita (dalla mina anch’essa bianca !) impiegata per scrivere i propri nomi su un foglio nero affisso all’ingresso, ne svela il ruolo da vivere, negli immediati successivi minuti.

Il primo di essi è Tom Ladik (Gabriele Sisci), a cui seguono Nina (Tania Benvenuti), Verna ( Ivana Jakovljevic), Henry ( Alberto Querini), Terry( Paolo Tommasi) e Kate (Livia Saccucci): sei personaggi che le circostanze o l’intervento devastante del caso hanno unito, per la prima volta, in direzione della speranza (metaforicamente concettuale e topografica) di superare il provino indetto dallo squattrinato regista Joe per lavorare insieme alla messinscena natalizia di un nuovo Amleto, di certo…non l’ennesimo.

In verità, sei attori in cerca di personaggi in evidente riproposizione, per legge del contrappasso di dantesca memoria, dell’estro combinatorio pirandelliano della più nota commedia del drammaturgo girgentino di impianto metateatrale ossia Sei personaggi in cerca d’autore e di vite private da ricostruire, di un riscatto artistico da consolidare con o senza il supporto di un agente ( Leit Motiv, insieme ad altri dello spettacolo in questione).

Mentre il pubblico reale del Teatro dei Conciatori affluisce in sala i provinandi dal foyer dove sostavano, in controllata ansia, emergono, come dal nulla, sul palcoscenico ricordando, ancora una volta con indosso abiti rigorosamente neri, sebbene differenti per forma e stile e biacca in volto, l’ingresso dei protagonisti della citata “commedia da fare”: gli attori in attesa di conoscere, se selezionati, i personaggi da interpretare dell’ Amleto di Welcome to Hope e i personaggi che vogliono vivere necessariamente attraverso gli attori assaporano il limbo dell’incertezza dinnanzi ad una vita scenica ancora immobile, indefinita e confinata ai fatti essenziali: un dramma da mettere in scena.

Allora universi infiniti si dischiudono nelle loro menti sicché bianco e nero, manichei ideali, generano cromie reali mediante un meccanismo salvifico di reinvenzione affidato totalmente all’arguzia, alla sensibilità, all’intelligenza spettatoriale: ognuno potrà vedere un colore diverso, esattamente come in un eccesso di logorrea Tom sembra reperire nel testo sacro di Sir William Shakespeare uno nessuno e centomila Amleto istituendo altisonanti quanto improbabili paragoni in odore di tautologia: «Amleto non è solo Amleto. Oh no no no, oh no. Amleto è me. Amleto è la Bosnia. Amleto è questo tavolo, Amleto è l’aria. Amleto è mia zia Mary. Amleto è tutto quello che non hai mai pensato sul sesso…sulla geologia.»

Pertanto, se da un lato la scelta bicolore di Alessandro Catalucci estesa anche alla scenografia appare in primis una modalità di traduzione dell’originale pellicola di Branagh, dall’altro, elogiando la miriade di dibattiti nascenti in seno ad una pura questione di ermeneutica e di critica estetico-teatrale, induce a ricordare e riassaporare l’incedere contrastato, indeciso e profondamente naturale ovvero umano e non costruito a tavolino de Il padre, la madre, la figliastra, il figlio, il giovinetto, la bambina descritto in una didascalia oramai celebre: Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’adoperi con ogni mezzo a ottenere tutto l’effetto che questi “Sei Personaggi” non si confondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i personaggi: maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca. S’interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I “Personaggi” non dovranno infatti apparire come “fantasmi”, ma come “realtà create”, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le maschere ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il “rimorso” per il Padre, la “vendetta” per la Figliastra, lo “sdegno” per il Figlio, il “dolore” per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della “Mater dolorosa” nelle chiese. E sia anche il vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganze, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l’idea che sia fatto d’una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria.

Quelle bretelle con cui sembra litigare nel sistemarle sulle poderose e sante spalle per occupare mani e braccia pronte a mulinare concetti di tecnica recitativa quando non impegnate a compiere con meticolosa acribia esercizi di rilassamento, donano a Tom nel volto e nella postura un’insospettabile maschera ( in senso metaforico) da mimo: tirandole su, già si pone in contrasto alla gravità caratterizzando, con una commistione di nervosismo e nevrosi, l‘espressione del proprio sentimento fondamentale.

L’essenza è affidata al bellissimo volto dell’attore Gabriele Sisci, sfondo bianco di una tela intonsa, da cui rilucono due puntini di colore, come in un quadro del Goya e…più tardi di Picasso: stelle nere, brillanti, preziose, giunte in terra a dar la vista ad occhi bizantini, precedono col loro guizzo ora battute fulminee e vigorose con verve da grande attore del ruolo di Laerte assegnatogli, ora discorsi d’amore soltanto accennati per estrema dolcezza e commovente timidezza d’animo.

Poetico ed arrogante al tempo stesso, retrocede magnificamente al grado zero di fanciullo sperimentando la forza di un corpo adulto difficile da gestire quando la propria scelta di vita, da “consumare” nel mondo, coincide con l’essere tutte le parti.

A confermare la sua bravura attoriale l’emozionante interpretazione dal vivo, accompagnato dal pianoforte, del notissimo brano di Sting: Fragile([...]On and on the rain will say,how fragile we are. How fragile we are).

Da qui la plausibilità di un accostamento al mimo e alla clownerie nonché della somiglianza con Olivier Py de Epistola ai giovani attori e la costante dicotomia tra le serie rivendicazioni di avere un agente oltre ad una dignità di performer da rispettare (Tom: «Si che ce l’ho. Sta zitta! Sta zitta, capito. Così non è giusto! Così è troppo») ed i buffi accenti, in senso linguistico, volti a marcare i vari personaggi da interpretare.

A seguire i cinque colleghi di Tom, nel corso della rappresentazione teatrale e della tragedia da farsi personalizzano fortemente la parte loro assegnata mantenendo strenuamente (perché inconsapevoli) un’adesione incondizionata al ruolo recitato nella vita quotidiana da cui hanno imparato malamente a difendersi fingendo per non soffrire: Nina-Ofelia (Tania Benvenuti) non porta occhiali per non vedere il mondo andato in mille pezzi dopo la morte del marito; Henry- Re Claudio ( Alberto Querini) si atteggia, senza esserlo mai stato, ad attore dall’esperienza e dal passato gloriosi ammettendo il proprio narcisismo: con basco e pipa, il volto antico pare esser balzato fuori per l’occasione da una tela di epoca elisabettiana; Kate-uno dei soldato che monta la guardia davanti al castello di Elsinore (Livia Saccucci), nel film chiamato Carnforth, affida all’alcool la rimozione dei ricordi infantili forieri di turbe e spavento decidendo di percepire alterata ogni nuova situazione facile o complessa parantesi sul suo cammino.

«Chi va là?» una battuta che per problemi interpretativi di Kate mostra un simpatico risvolto comico è il grido di spavento da cui ricominciare dopo un canto di ubriaco straziato dalla disperazione, ma pur sempre da brivido, eseguito, magistralmente, da Livia Saccucci.

In ottemperanza alla rivoluzione teatrale di Sir William Shakespeare, e alle usanze del Kent è lecito inoltre che la Regina Gertrude, The Queen, sia un uomo ( Paolo Tommasi) senza alcun bisogno di travestirsi da donna o di essere una vera Drag Queen: le movenze femminili stereotipate, accennate con delicatezza nella voce modificata ad arte, quanto nei gesti ingentiliti ottengono un effetto festoso, una commistione di garbo e misura, così come quelle di Verna (Ivana Jakovljevic), nel film Vernon) per mostrare il «[…]vantaggio di chi ha cominciato da bambino. Io faccio l’attore già da sette secoli.» si “disumanizzano”, si “zoomorfizzano” trasformandosi nelle ali di fata, dal battito frenetico della piccola e muta Campanellino di Peter Pan.

A latere, nel bel mezzo di un gelido inverno, gli altri personaggi Margie-agente (Giulia Rossini), Molly-sorella di Joe ( Marta Paglioni), Fadge-costumista/scenografa (Luna Deferrari) e Tim-figlio di Terry (Lorenzo Colarusso), pur non direttamente connessi alla messinscena dell’Amleto salgono sullo stesso treno liberatosi in corsa delle paure, delle energie negative, del male di vivere contribuendo all’happy ending teatrale e non: l’adattamento teatrale di Catalucci dimostra quanto parafrasando Shakespeare, anche la semplicità possa essere l’anima del senno giacché con soluzioni prive di esagerazione, ma efficaci, nella realizzazione della diegesi, al mantenimento del suo ritmo costantemente brioso, novelli aggeggi ex -machina come la scatola e la macchina del fumo ( di cui la prima costituisce il prototipo), per citarne soltanto alcuni, sono in grado di regalare al pubblico in sala emozioni e stupori epifanici superiori all’originale filmico.

Catalucci avrebbe potuto infatti evitare, aggirando palesemente l’ostacolo, la presenza in scena di tutti i suoi attori; al contrario nel distribuirli quasi sempre in campo lungo sul palcoscenico e creando molteplici focus visivi e/o sonori in base a chi prende la parola, si impegna in una sfida encomiabile affinché il risultato ovvero la libera trasposizione sia troppo simile alla vita e lontana dalle vetuste grammatiche e sintassi della scena sopratutto italiana.

Si noti, ad esempio, che il regista di Welcome to Hope e quello dell’Amleto di Hope porgono, finalmente, per la maggior parte dello spettacolo, le spalle al pubblico come farebbe davvero un direttore d’orchestra alle prese con la guida dei suoi variegati strumenti: l’ apice della traduzione di tale suggestiva immagine si ottiene con la briosa e trascinante ouverture di Carmen di Bizet sapientemente scelta per accompagnare, sebbene in funzione extradiegetica, le prove della scanzonata compagnia di Joedi cui attraverso una sintesi ad effetto si offre una visualizzazione comica d’ensemble con scene di duello stilizzate, proteste da primadonna di turno, scherzi e rimbrotti pausati a dovere dallo spoglio rumoroso delle pagine del copione.

La realtà che del mondo del teatro italiano viene generalmente presentata obbedisce ancora alla famigerata quarta parete e alle leggi prospettiche di una più suggestiva o funzionale visione d’insieme, invece in Welcome to Hope tanti sono i fuochi, in gergo tecnico, quante le situazioni che prendono vita come in un quadro d’argomento storico, tra il confine sinistro del pianoforte e le panche della cattedrale dismessa in cui la scena principalmente si svolge “protetta” da una piccola icona di sicuro in stile bizantino di una Madonna posta sulla parete di fondo… anch’essa nera … (ma non perché addolorata.)

La vergine con bambino, in “Hope‘s style”, emergente dal muro quale immagine miracolosa, campeggia sui reietti del mondo dello spettacolo, rifiutati come guitti ed esclusi dai fasti delle corti del theatrum mundi proteggendoli con infinito amore, poiché naufraghi di una tempesta principalmente intima: l’assenza di colori, reinventabili ad arbitrio del pubblico, di nuovo ottiene l’effetto di un recupero speranzoso del sacro rito della scena similmente ai drammi medievali dei mistery e miracle plays, ancora oggi troppo poco analizzati tanto da preservare l’aura mistica e viscerale al tempo stesso dell’unica forma di drammaturgia attiva in secoli di buio scenico.

All’insegna del rigore e della pulizia formale si consideri anche la diretta corrispondenza degli oggetti adottati da ogni attore dell’Amleto al fine di “trasformarsi” in personaggio: la trovata ricorda lo shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate dove al posto del mattone alias il muro, per rispolverare quell’altro delizioso capolavoro (MURO – Accade, dunque, nel nostro interludio, che il sottoscritto, di nome Nasone, debba rappresentare il Muro; e il Muro, come vorrei che voi l’immaginaste, ha in se stesso una crepa, una fessura attraverso la quale, in gran segreto, Piramo e Tisbe, i due innamorati, usano bisbigliarsi tra di loro; questa calce, l’intonaco e il mattone vi facciano pensare che quel muro son io, come se fosse un muro vero. E questa, a destra e a manca, è la fessura attraverso la quale, trepidanti, i due giovani vanno a bisbigliarsi ) si hanno, ad esempio, i guanti bianchi per Joe e Tom indossati onde decretare l’inizio di un duello e la relativa precedente vestizione dei due combattenti appunto mai avvenuta in scena.

Idem per il velo di Ofelia, le corone della regina Gertrude e del re Claudio, la giacca bianca per Polonio, la spada-giocattolo della sentinella di guardia al castello di Elsinore ecc…

D’altronde le poche idee e molto confuse di Joe danno prova di una direzione attoriale e registica corretta e salda: « Niente periodo. Semmai il nostro periodo. E quando ognuno avrà contribuito con recitazione e costume, il periodo emergerà da sé. Sta qui l’essenza di questa collaborazione.» fino a non sostenere più le dimensioni di libertà sperimentale (anche scenica) del suo stesso sogno (che sta prendendo vita mediante la fedele collaborazione della sorella Molly, della factotum costumista/scenografa Fadge e soprattutto dell’agente Margie) decidendo di scrivere la parola FINE al termine di una tragedia non ancora andata in scena.

Amletico e sdoppiato in attore e regista, amante della stessa donna che per ironia della sorte il palco e la vita gli donano, Joe e Alessandro Catalucci, capocomici di una compagnia in cui, come sostiene Nina :«[…] Gli attori vivono così» iniziano quasi anfibologicamente a dissolvere il confine tra arte teatrale ed esistenza fondendo in un magico vortice di sangue e respiro, la necessità di recitare e l’urgenza di vivere.

A seguirlo in un’avventura folle, ma ineluttabile, il resto della compagnia in cui tutti gli attori fino a quando si ostinano ad interpretare il ruolo di “uomini”imprigionati nel quotidiano, risultano banali come piccoli ingranaggi, ma se messi a nudo e ricoperti delle loro debolezze, paure, difficoltà, fragilità, entrando in scena, si trasformano in giganti.

Welcome to Hope, nel bel mezzo di un gelido dicembre romano ha funzionato dall’inizio alla fine delle repliche vincendo la sfida di squadernare davanti agli occhi del pubblico con entusiasmo e duro lavoro interpretativo (non da meno alcune sequenze danzate) un risultato nuovo perché diverso rispetto alle altre trasposizioni teatrali dell’originale film di Branagh viste e riviste immediatamente dopo l’uscita della pellicola.

Ulteriore merito è da conferirsi infatti alla scelta di glissare sull’illustrazione di Amleto dando “ per buona la prima”in cattedrale avvolta in un ellittico buio.

Lo spettacolo arriva dunque a coincidere non con l’ipotesi, bensì con la verità del “dietro le quinte” del paradosso diderottiano del lavoro dell’attore a partire dalle porte aperte o chiuse in faccia durante i casting, alle relazioni artistiche ed umane tra colleghi che dalla prima notte scenica dei tempi, denigrati in quanto promiscui, legati a doppio filo ad oscure forze del male, doppi ed “ipocriti” per antonomasia, hanno deciso di essere l’altro, sempre in fieri, soli e molteplici, lontani e vicini.

Non vigono regole di somiglianza, di fascinazione mimetica nell’infinito gioco della variata ed impossibile ripetizione dell’uguale giacché come avrebbe rimproverato a Laura Betti, Pier Paolo Pasolini durante il tournage del film Teorema quand’ella sosteneva :«Non ci può essere nulla di più bello delle lacrime vere» con la sua risposta: «Sì,di più bello ci sono le lacrime finte» […] l’esperienza dell’attrice si sarebbe rivelata poi accondiscendente: «Bene, aveva ragione lui[…]Il fatto che, con o senza glicerina, gli occhi e quello che c’era dietro agli occhi, era mio, di Laura-Emilia».

La giustificazione della pazzesca, miserabile e tormentata cialtronata de l’Amleto di Hope diretto dal capo dei perdenti non diverge dalla motivazione che rende questa fottuta vita degna di essere vissuta: come un deus ex machina, forse il vero ed unico della pièce, lo sguardo del pubblico fornisce senso all’espressione e comunicazione ostinate di un sacro dramma e libera dal mistero della riproduzione e dalle catene sterili dell’autoreferenzialità.

Vedete tutto questo, oh dei! …ed applaudite.

Mariangela Imbrenda


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