Magazine Cinema
Ho come l’impressione che oggi non si possa più immaginare un cinema al di fuori della fine: intrappolata in prigioni liminali ed evanescenti la narrativa si sta nutrendo di elementi anacronistici per poi digerirne delle componenti mutanti. L’impossibilità sistematica di nuove narrazioni ha a che fare con la limitatezza delle storie possibili, con teorie archetipali e grammatiche sovrastrutturali. Il rifugio postmoderno si è rivelato il più comodo ma rarefatto dei nascondigli. Caratterizzato com’è da un regime primariamente logico-quantitativo, il postmoderno ha fatto del pastiche la sua forma, del boutade la sua parola, del riciclo (sistematico, transitivo e infinitamente declinabile) il suo topos. E così è stato possibile che i Puffi sposassero Pocahontas, che il porno bussasse all’interno di un izba Tarkovskiana, che i gangster Scorsesiani praticassero kung fu, che Baudrillard diventasse minestrone new-age. L’entrata nel nuovo millennio è stata segnata da troppi finali che hanno marcato, corroso, sporcato forse un immaginario ben più infantile. La realtà, invidiosa, ha imitato la narrazione (il riciclo del “tragico” dell’11 Settembre), il vero il verosimile (la morte in diretta), per poi portare a cortocircuiti irrimediabili (la strage di Denver).
“L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Ed è paradossalmente il reale che è diventato oggi la nostra vera utopia…”(1). Questo reale utopico, memoria di un mondo perduto e antico, artigianale e non digitale, manuale e non cibernetico, rientra ormai nell’al di là. L’al di qua è pura, autentica narrazione. Siamo già modelli del cyberspazio. E’ impossibile, allora, superare la fine e inventare? Gli anni ’90 e i primi anni ‘0 sono stati la vittoria del remeake, del sequel e del prequel. Ma oggi bisogna cambiare l’origine per poter ricominciare. Bisogna immaginare reboot e infiniti what if. Centro nevralgico, polo di attrazione e repulsione, il buco nero della narrativa si erge impetuoso come colonna terminale del lungo viaggio dell’immagine-narrazione. La vita tumultuosa, rumorosa e blockbusterizzata della grandi saghe del passato dev’essere rivista.
Mi pare di scorgere ormai una chiara tendenza al reset, al riavvio del sistema, al reboot come indice sommario di una nuova esistenza del cinema e delle sue narrazioni. Il reboot è oggettivazione dell’impossibile, è un what If storicizzato. Ricomincio da capo, per l’appunto. La sensazione è che la narrativa, per superare il postmoderno e ricominciare ad inventare, debba emulare gli strumenti dell’informatica. La soluzione più efficace, si sa, rimane quella più semplice agli occhi. Davanti a un problema si arresta e si riavvia il sistema (davanti a un punto morto di una narrazione ormai stantia si riavvia il meccanismo narrativo). Se il problema persiste non resta altro da fare che usare una time machine: si torna indietro nel tempo quando ancora tutto funzionava. Si fissa una data, un nuovo inizio per proseguire come se niente fosse stato, come se tutto il tempo trascorso non fosse mai esistito. L’universo narrativo, esattamente come quello multimediale, viene resettato, sparisce dissolto nella formula del deserto: quel non è mai successo che trasforma il futuro in miraggio. Le grandi saghe, come le avevamo conosciute, diventano così autentiche fate morgane, visioni illusorie e tracce di un mondo parallelo ma ormai perduto e inconciliabile. D’ora in poi il narraresettatore potrà muoversi liberamente su un’altra linea temporale perché il futuro non è più scritto e definitivo. Il reboot si profila così come morte del determinismo narrativo, sfida vinta contro il fato, manifesto del libero arbitrio che per esistere ha bisogno di negare quanto è esistito: la sua stessa storia. E allora, alle origini di una nuova, revisionista mitologia, Spiderman può tornare Peter Parker e rivivere diversamente la propria storia.
Mi pare di rintracciare tale tendenza al grado zero del mito in svariate creazioni del nuovo Re Mida di Hollywood, J.J.Abrams, prima con la sua creatura più famosa, “Lost”, e poi con il reboot di “Star Trek”, vero e proprio indice di un what if di proporzioni epiche. Davanti a una saga che rischiava di giungere ormai al capolinea J.J.Abrams è salito al timone dell’Enterprise per rilanciarla. Il problema era evidente: come muoversi in un universo perfettamente collaudato e coerente come quello di “Star Trek”, famoso per la precisione quasi filologica con cui presentava strutture federazionali, sociali e relazionali, razze aliene con culture, lingue, religioni, usi e costumi completamente diverse dalle nostre? Il rischio era quello di rimanere intrappolati nei rigorosi codici Trek, senza la possibilità di attirare nuovi spettatori. J.J. Abrams ha fatto così scacco matto: ha riportato il mito al suo grado zero, ovvero ha deciso di tornare ai tempi dell’entrata nell’Accademia della Flotta Stellare di un giovane e irrequieto James T.Kirk. L’intuizione è stata quella di trasformare il prequel in reboot attraverso l’espediente di Nero, ennesimo cattivone interstellare che, spinto da sete di vendetta, torna indietro nel tempo per alterare per sempre la storia. Distrugge Vulcano e il mondo di Star Trek, così come l’avevamo conosciuto, non sarà più lo stesso. “James T.Kirk era un grande uomo” recita Nero “Ma quella era un’altra vita”.
Il reboot sfida la Storia mostrandola infinitamente reversibile e insegnandoci che nulla è definitivo, nemmeno la morte; trattasi di un revisionismo rivoluzionario senza precedenti che fa del familiare sconosciuto la sua legge aurea. Familiare perché il mondo che conoscevamo prima non permane se non come traccia (il ritorno dello Spock “originale”, Leonard Nimoy, è da leggere come residuo e salvaguardia della memoria); sconosciuto perché la storia è andata diversamente e gli eventi hanno preso una piega imprevedibile. Questo familiare sconosciuto rende, ovviamente, ancora più impressionante e teorica l’ucronia se essa viene applicata alla realtà e non ad un universo narrativo. Il cinema immediatamente si nobilita perché, per la prima volta, ha la possibilità di riscrivere la storia e di giocare con il mondo. Nella sua sfida all’impossibile, allora, Quentin Tarantino fa morire Adolf Hitler all’interno di un cinema, le Torri Gemelle sono ancora in piedi in un episodio di Fringe e chissà quanti altri spunti potrebbero esistere. Orizzonti distopici potrebbero raccontarci gli effetti nefasti di una guerra nucleare che ha colpito il mondo negli anni ’90, oppure, qualcuno, potrebbe pensare a un presente diverso e gigantesco, parallelo, vicino e assai lontano.
E’ con il what if che il cinema può riscrivere le sorti del mondo e tornare a credere nell’Utopia.
(1) Cfr. Jean Baudrillard: “Cyberfilosofia”, Mimesis edizioni, Milano 2010, p.10.
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