Giuseppe
Ora, va bene che si parla di un avvenimento tragico come quello della morte, la settimana scorsa, di un ragazzo di 28 anni nei bagni della facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna per un’overdose di eroina.
Solo che a me sembra di cattivo gusto la lettera che il Preside di facoltà, prof.ssa Carla Giovannini, scrive per il tramite delle pagine de la Repubblica Bologna alle autorità del Comune, rappresentate in questo momento dal commissario Anna Maria Cancellieri.
La lettera è sentita, indubbiamente. Dopo avere descritto gli avvenimenti di quel lunedì dal suo punto di vista, scrive tra l’altro:
E mi sono chiesta, piena di rabbia, se davvero non riusciremo mai a sottrarci alla maledizione di questo luogo, di questa piazza Verdi che non si riesce a riscattare dalla droga.
Noi di Lettere, noi che in via Zamboni lavoriamo, dobbiamo trarre da questa tragedia qualche insegnamento: cercheremo di proteggere meglio i nostri luoghi di lavoro e di adottare un miglior sistema di controllo dei nostri spazi.
Faremo la nostra parte. Così come abbiamo fatto con la pulizia del portico, con l’apertura serale della biblioteca. Ma questa è una cosa troppo seria per essere trattata con qualche accorgimento tecnico.
Possiamo chiuderci dentro, ma tanto il male sta lì, subito fuori dalla porta, e insidia i nostri spazi e soprattutto i nostri studenti. Ed è talmente visibile in questi ultimi mesi da essere diventato scandaloso. Da oggi io non posso e non voglio più fare finta di nulla.
Io, per quello che può valere, volevo dire alla prof.ssa Carla Giovannini che se esprime la sua rabbia con queste parole, sembra dare l’impressione che il problema vero nella morte di un ragazzo stia nel fatto che è venuto a morire nel bagno di una facoltà universitaria. Seguo molto poco la cronaca, perché non mi piace la pietà a buon mercato e il genere giornalistico del “trarre conclusioni generali da un fatto singolo” mi disturba: molto spesso la risposta che do, anche cinicamente è stica22i. Però la pietà, rabbiosa, commossa, silente, quella che ti fa dire “poveraccio, però” e per un attimo sei triste ma triste davvero, prima di tornare alle solite cose, ogni tanto ci sta. Qui io ce l’ho messa, pensando un attimo alla faccenda. E pensandoci però, si arriva ad una conclusione: che ci siano delle cose da mettere in chiaro.
Io volevo dire che per me in via Zamboni, all’Università di Bologna, ma posso allargare il discorso anche ad altri atenei, NON c’è nessuna differenza tra dentro e fuori. Sta qui tutta la differenza con la scuola fino alle superiori: che all’Università si iscrivono persone adulte e maggiorenni, che in un’aula per una lezione può entrare chiunque, che non ci sono bidelli etc. Non entra in Università nessuno che non voglia farlo, né il contrario.
Mi sembra un brutto segnale dimostrare che la preoccupazione stia nel dove è morto il ragazzo e non nel fatto che sia morto. E su questo: signora preside, non è colpa sua. Però non si può dire che “là fuori” c’è “il male che insidia (?) gli studenti”, giacché gli spacciatori stanno dentro e fuori dalle aule -lo so: si vedono. L’insidia è nel bisogno, vorrei persino dire che l’insidia sta nel fatto che il mondo delle droghe leggere e quello delle droghe pesanti si incontrino nel sottobosco dell’illegalità. Se il male è l’eroina, chiamiamola con il suo nome, no? Se invece sta in qualcosa d’altro, non per questo c’è la rassegnazione: l’Ateneo può collaborare in molti modi diversi con le autorità competenti, solo che a me piacerebbe vederlo collaborare prima di tutto con i suoi studenti.
Gli studenti che vogliono procurarsi una dose non hanno difficoltà in questo, visibile o no che sia: come se non fosse già sbagliato in sé il discorso per cui una cosa è tanto più grave e indecorosa quanto più è visibile. C’è una costruzione sociale, c’è una storia dietro quell’idea, l’idea borghese di decoro, c’è un modo chiuso di pensare agli spazi come un rapporto di dentro/fuori: lo so, professoressa, perché me l’ha insegnato lei nelle sue lezioni. So anche che piazza Verdi la sera è già piena (piena!) di poliziotti e che le cose non sono cambiate granché.
Giusta la rabbia, giusto il desiderio di far sì che certe cose non accadano più: ancora più giusto dirsi le cose per quello che sono e trattare gli studenti per le persone adulte e responsabili del bene e del male che fanno che essi sono.