Fin dall’epoca del muto, i regimi totalitari hanno saputo utilizzare al meglio lo strumento del cinema per influenzare la massa. Nella Germania del terzo reich, l’umorismo assunse un ruolo di resistenza, arma temibile nella logica di un oppressore. Numerose erano le barzellette contro il fuhrer e il suo regime, ma egli era molto suscettibile alla parodia e l’irrisione. La pellicola “To be or not to be” di Lubitsch, una ferocissima satira sul nazismo (1942), rappresenta esempio di resistenza anti-nazista. Con “Il grande dittatore”, uscito nelle sale il 15 ottobre del 1940, Chaplin si espose a un rischio: aveva colto in pieno gli stereotipi della rappresentazione del potere e fece un’attenta analisi delle pose e della tecnica oratoria di Hitler. La voce di un piccolo barbiere ebreo che somiglia tanto al dittatore che ha dato il via alla campagna razziale, avvicina, non uno, ma tutti gli uomini. Chaplin parlava per la prima volta in un film coraggioso, togliendosi la maschera di Charlot e guardando la macchina da presa come un uomo che giudica e guarda la società che lo circonda.
“HANNAH, MI SENTI? OVUNQUE TU SIA, ALZA GLI OCCHI, ALZA GLI OCCHI! LE NUBI SI DISPERDONO! E TORNA IL SOLE! USCIAMO DALLE TENEBRE ALLA LUCE! ENTRIAMO IN UN MONDO NUOVO, UN MONDO Più BUONO. ALZA GLI OCCHI, L’ANIMA DELL’UOMO HA MESSO LE ALI E FINALMENTE COMINCIA A VOLARE. VALA NELL’ARCOBALENO, NELLA LUCE DELLA SPERANZA.” (il grande dittatore).
Questi occhi di fanciulla vedono un mondo racchiuso in un bolla di sapone, come una meravigliosa favola che ti raccontano prima di addormentarti. In quei sogni leggeri, fatti di nuvole, non si vede carne da cannone e non ci sono uomini con le macchine al posto del cervello.
Concentriamo l’attenzione sullo sguardo degli innocenti. A quei bambini che sono entrati a far parte del nostro immaginario collettivo. Perché il riso ci riporta al gioco e nel gioco infantile possiamo trovare le condizioni per la comicità. Il nazismo ha travolto e contaminato anche il mondo limpido dell’infanzia.
INIZIA IL GIOCO, CHI C’E’ C’E’, CHI NON C’E’ NON C’E’
(da“La vita è bella”)
La parola gioco diventa una metafora nella lotta per la sopravvivenza, un gioco in cui si rischia la vita, un gioco fatto di regole e chi conosce queste regole vivrà. Nel film “La vita è bella” Benigni manipola le parole per esorcizzare la terribile realtà. Si osservi il dialogo a seguire:
“GIOSUE’: con noi ci fanno bottoni e sapone.
GUIDO: Giosuè, cosa dici?
GIOSUE’: ci bruciano tutti nel forno
(La vita è bella)
l’apparente sminuire le atrocità con delle barzellette, e utilizzando parole come “bottoni” e “sapone” ha l’effetto di enfatizzare l’orrore.
Il film di Benigni ha inondato le sale cinematografiche nel 1997: il pubblico trasversalmente gradisce, a testimonianza del fatto che non si tratta di un’opera che lo spettatore percepisce come “forte” o di “pesante” fruizione. Guido (Benigni) prova a rendere meno infernale la vita del lager, è il giullare che cerca il bello nell’orrore. La tragedia storica si maschera di un gioco dell’assurdo: è mai possibile che la carne umana diventi sapone? Benigni non si preoccupa di una perfetta ricostruzione storiografica, né analizza la vita dei campi di concentramento (come al contrario, accade nel film “Kapo’” di Pontecorvo. Pellicola, quest’ultima, con un profondissimo sottostrato psicologico), ma avvicina emotivamente in un modo impressionante il pubblico ai personaggi e al tema. La raffigurazione dell’olocausto fatta dal cinema italiano vede una prima fase di rimozione a partire dalla fine della guerra fino agli anni sessanta che coincide con il processo ad Eichmann. E’ come se l’opinione pubblica avesse voluto portar fuori dai confini nazionali quella tragedia: con il film “Kapò” di G. Pontecorvo, del 1960, si diede il via all’internazionalizzazione dell’olocausto nel cinema italiano.
Il successo de “La vita è bella” ha permesso la nascita di un nuovo sottogenere THE HOLOCAUST COMEDY, seguito da “Jakob il bugiardo” e “Train de vie”. Sono esempi per far capire che attraverso la bugia e il sorriso si può sopravvivere.
“Voi mi chiederete: come ebreo, come hai potuto raccontare una barzelletta del genere in un momento come quello, è così che siamo sopravvissuti? Queste sono le cose che ci hanno fatto andare avanti, il resto ce l’avevano preso i tedeschi, avevano costruito alti muri di filo spinato per chiuderci nel ghetto, siamo stati isolati per il resto del mondo per anni, senza ricevere notizie. Quindi ci aggrappavamo alle piccole cose, una barzelletta macabra, una passeggiata al sole, un passaparola incoraggiante.” (da “Jakob il bugiardo”).
Cosi, con queste parole, ha inizio il film “Jakob il bugiardo” (1999) diretto a Peter Kossovitz con Robin Williams che si inserisce nel filone in cui la tragedia storica dell’olocausto è narrata attraverso lo sguardo ironico del clown . Il film è tratto dalla storia vera raccontata in un romanzo di Jure Becker che ha vissuto sulla sua pelle gli orrori del ghetto. Il protagonista, Jakob, prigioniero in un ghetto, inventa una radio inesistente per dare credibilità all’avanzamento delle truppe russe e per risollevare l’animo di chi lo ascolta.
Train de vie, La vita è bella e Jakob il bugiardo sono film che oppongono l’ironia alla barbarie nazista. Il film di Benigni è incentrato sul gioco attivato solo da uno dei componenti del gruppo , il film di Radu Mihaleanu è un gioco di un’intera comunità. Ma al “pazzo”, Schlomo, sullo sfondo di un villaggio ebraico viene in mente l’idea geniale: “ci deportiamo da soli?”. Destinazione: Israele.
Quindi, occorre procurare un treno, un treno per sopravvivere, affollato di vittime e finti carnefici tedeschi e organizzare una finta deportazione accompagnata dai toni giocosi e dinamici di Goran Bregovic. Anche il film del regista de “Il concerto” ha come titolo la parola: vita. E il motore interno: sopravvivenza.
La vita è bella, Train de vie, Jakob il bugiardo: film diversi da cui, tuttavia, all’ombra scura del filo spinato, emerge uno squarcio di luce emesso dalla risata di un clown, la figura che nasconde una lacrima interiore, che indossa un pigiama a righe. Guido, Jakob, Shlomo: tre clown che giocano all’inferno e che muoiono sorridendo, utilizzando mezzi diversi- la radio per jakob, il treno per Schlomo, 1000 punti +carro armato per Guido- per salvare gli altri.
“Dio creò l’uomo a sua immagine. E’ bello: Schlomo a immagine di dio. Ma chi l’ha scritta questa frase nella Torah? l’uomo, non dio. L’ha scritta l’uomo senza modestia paragonandosi a dio. Dio forse ha creato l’uomo, ma l’uomo ha creato dio solo per inventare se stesso. L’uomo ha scritto la bibbia per paura di essere dimenticato, infischiandosene di dio. Noi non amiamo e non preghiamo dio, ma lo supplichiamo. Lo supplichiamo perché ci aiuti a tirare avanti: cosa ci importa di dio per com’è, ci preoccupiamo solo di noi stessi. Allora, la questione non è solo sapere se dio esiste, ma se noi esistiamo. “ (Train de vie)
Roberta Latona