Probabilmente era scritto nelle stelle, inevitabile, previsto. Perché, quando basta un incontro a sovvertire timori, tremori e pregiudizi, poi – per quanto la trama possa essere aggrovigliata, strana, sghemba – la risposta finale è in qualche modo data. Del resto, la storia era stata fitta (come in ogni buona fiction che sia degna di rispetto) di complicazioni, paure, presentimenti; ma anche salti improvvisi ed entusiasmi: sgridate a occhi torvi e gioiose ricomposizioni.
Eppure, nonostante tutto (e il molto altro che tra loro si è consumato, indelebile, la settimana scorsa), la ‘povna non se l’aspettava, così forte. E sono oramai diversi giorni che – dopo averli visti radiosi, e aver passato con loro una manciata di ore al giorno – ritorna alla sua casa che è sempre più un magazzino entropico, pensa a loro, e ride, ride, ride.
Perché l’ineludibile è accaduto, e ora sono cazzi (e inoltre, sul loro destino prossimo, è bene ricordarlo, ha ancora da dire la sua ultima lo sceneggiatore).
La ‘povna e i Merry Men sono finiti dentro un musical. E, da quando sono rientrati (si fa per dire) nella loro amata aula, si guardano, si sentono, si sanno. E le giornate insieme – che pure ancora sono dense – scivolano via così, piene di cose.
E non è solo che fanno il tema (sulla gita in Appennino, ovviamente), e tutti stanno fermi a scrivere per ore e ore, follemente, pagine e pagine di carta (“Prof. ‘povna, potrebbe dare il permesso di uscire ai Merry Men per l’intervallo, vorremmo rivederli?” – domanda educatissimo uno dei Secondi compagni di viaggio; “Ben volentieri, caro” – risponde la ‘povna sorridente – “entra pure, e chiamali. Non sono io che li trattengo: stanno scrivendo e sono appassionati, e dunque, come spesso capita, si rifiutano di fare pausa. Vedi tu se riesci a farli venir fuori”).
Non è solo che portano le foto a scuola, e preparano video pomicioni, da occhi lucidi.
Non è solo che sognano il triennio (“senza l’Onda” – riflettono all’unisono), in maniera così concreta e forte che certe cose non si possono nemmeno pronunciare.
Non è solo che si dedicano a far tutto ciò che devono, come sempre, con disordinata compunzione.
E’ proprio che oramai è scattata quella sintonia leggera che la ‘povna ha conosciuto, in questi termini (e pure, per fortuna, anche diversa), solo un’altra volta (e sì, ovvio, con loro).
E dunque far lezione assomiglia sempre più a una gigantesca sarabanda (ancora una volta, certo, come un tempo, anzi, proprio l’inizio), in cui, mentre studiano e ripassano, sostanzialmente si divertono comunque, lei e loro.
Oggi, per esempio (ma ogni giorno è uguale, se è per questo), la ‘povna è entrata in classe dopo l’intervallo, mentre avevano appena finito il compito di Trasfigurazione. Non c’è stato bisogno di dirlo: lei ha lasciato che si prendessero i dovuti minuti di pausa, e intanto loro sciamavano per aiutarla, controllavano il livello della differenziata (sempre impeccabile) della classe, sbucciavano e dividevano correttamente la carta lucida dalla sua propria pellicola, andavano in sala professori a prendere le casse, il registro, i libri della ‘povna, mangiavano il panino, ballavano provando il passo del pavone.
“Già che ci sei…” – la ‘povna allunga 40 centesimi a Cirillo Skizzo.
“Il solito, professoressa?” – scintilla quello.
“Certo, cappuccino di orzo, senza zucchero e con sputo”.
“Sputo???”. La collega di Snape manca poco sviene sulla cattedra, ma loro ridono, sotto i baffi, come chi condivide il linguaggio folle dei cospiratori.
Poi arriva Voglio-la-mamma (che ha sbagliato classe): ma loro educatamente aspettano che abbia finito di distribuire fotocopie e se ne renda conto (e intanto, a fare le assenze, oggi tocca a Weber).
Distribuzione dei compiti, davvero molto belli. Weber segna i voti sul registro, e:
“Finalmente si parte! Ma prima vi devo dire…”.
“Sì, prof., lei vuole che i temi siano copiati in file, per farci qualche cosa di strano, come è un po’ il suo solito” – esclama Weber, acuto e un poco ironico (e tutti gli altri in coro).
La ‘povna non nega (e come potrebbe?) e prende atto. E poi procede.
Lezione di storiografia, di quelle toste. “E per domani mi portate una riflessione sulla differenza tra grecizzazione e romanizzazione nell’eredità attuale”.
“Certo, prof., potremmo dire questo e questo” – iniziano Soldino, Earnest e Piccolo Giovanni. Ma tutto avviene a questo ritmo, come un vero e proprio coro.
“Sì, per esempio” – la ‘povna si finge esasperata, ma in realtà è in brodo di giuggiole.
“E ora potete dare sfogo alla vostra vena musicofila: prendete poesia, che facciamo la canzone d’autore”.
Prima, per la verità, sfonda loro le palle con metri, ritmi, sinalefi e dieresi per un’ora tosta. Ma poi arriva il momento.
“Weber, cerca sul tubo questo titolo, e attaccalo alle casse”.
“Ci siamo, prof.”.
“E ora ascoltiamo tutti”.
All’inizio sono stupiti, e quindi tacciono. Poi Soldino comincia, timido, dal fondo. E, testo alla mano, lo seguono tutti, come una giovane banda di Piccoli maestri.
E il suono della campanella li raggiunge, come sempre, con la porta serrata, a fregarsene del mondo. Presi dal suono di una musica bellissima e costante – spensierati e sorridenti, eppure attenti – a farsi i fatti loro.
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