Goffredo Fofi scrive su Internazionale che “Whiplash è una favola per gonzi di destra”, e mi dispiace molto dovere dissentire. Questo perché in ultimo sono parzialmente d’accordo con la sua tesi fondamentale: questo film rispecchia una ideologia precisa. Ma la definirebbe “di destra” solo chi in fondo non conosce la cultura popolare americana. Poi, è chiaro che in questi giorni si parli del film di Damien Chazelle, soprattutto dopo i tre oscar che si è portato a casa.
Il principio della prevaricazione dei vincitori sui vinti è del tutto trasversale alla politica – e questo è forse il vero problema. Nella maggior parte dei casi, i vincitori, il fine stesso della vittoria, e quindi i mezzi per ottenerla, sono comunemente visti come al di sopra di qualsiasi altro valore, principio o necessità. L’antico adagio che gli statunitensi si trascinano dietro da quando i loro padri fondatori vollero scrivere sulla dichiarazione di indipendenza che ogni cittadino americano ha diritto a ricercare la felicità, che oggi si traduce nella fede cieca e nell’ottemperanza alle logiche liberiste, portate avanti tanto da amministrazioni repubblicane quanto democratiche. È vero, Eastwood parla oggi ad un pubblico di destra; ma Chazelle parla a tutti.
Whiplash non è un film su chi combatte, ma su chi vince. Il protagonista vive come una sconfitta il proprio collasso alle pressioni criminali del proprio mentore, e infatti per un anno si allontana del tutto dalla musica, poiché non si ritiene più degno, non più papabile tra i migliori (tra l’altro, è l’unico momento durante il quale gli vediamo mostrare una qualche forma di umanità). E la sua vittoria finale è in ultimo basata anch’essa su una prevaricazione, che si è guadagnato il diritto di portare avanti perché si dimostra il migliore, il vincitore. E il mentore, dal canto suo, se all’inizio resiste al tentativo di prevaricazione, poi, quando si rende effettivamente conto di essere con la violenza riuscito a tirare su un batterista immenso, ecco che cede alla prevaricazione del giovane: la accetta, la avalla, la esibisce, ne gode. È la stessa logica del dualismo dei Sith (i cattivi) di Star Wars: ci sono sempre due, il maestro (prevaricatore) e l’allievo (prevaricato), fino a quando l’allievo non uccide il maestro prendendone il posto, per poi trovare a sua volta un allievo con cui continuare il ciclo.
E questo non mi piace. Credo sia uno dei mali più grandi del nostro tempo. Sarebbe bello sapere che da qualche parte c’è un nuovo Charlie Parker che suona. Ma è davvero necessario massacrare di violenze psicofisiche studenti convinti di sapere quello che vogliono per arrivare a questo obbiettivo? Il punto è che probabilmente da qualche parte un nuovo Charlie Parker c’è già: ma ha una batteria fatta di barili di latta, vive per strada con la poca musica che si sente di suonare per il pubblico passante, non ha una famiglia a cui appoggiarsi, né i soldi per arrivare ad andare al conservatorio che poi gli permetterà di impostare la sua carriera futura. Quindi il problema non è che non sottoponiamo alla giusta pressione i musicisti che abbiamo sotto mano, ma come al solito che non diamo a tutti i musicisti le stesse possibilità di esprimersi, semmai. Perché chi non si può permettere di entrare nel “giro”, è già un perdente in partenza, sempre secondo, e grazie a, questa ideologia.
Ora, è molto importante dire questa cosa. Ma non lo si può e deve fare con inesattezza. E questo è il problema della filippica di Fofi su Internazionale. Il disprezzo dei vinti e l’elogio dei vincitori – no matter what – non ha un colore politico: è questo che lo rende pericoloso, viscido e ingombrante come principio. Se mai faremo fatica a liberarcene, in questa società contemporanea guidata dal capitalismo statunitense, è perché ne avremo sottovalutata la pericolosità e pervicacia trasversale. Poi: quando Fofi definisce il jazz sentito e suonato nel film come “tutto scritto e imbracato, e con molta minore libertà di improvvisare, inventare, ‘creare’” di quanto lui ricordasse, si mette sullo stesso piano di Baricco quando scrisse in Novecento quella stronzata: “quando non sai cos’è, allora è Jazz”, o una cosa del genere. Ma chi ve l’ha detto? Si possono fare tante critiche alla rappresentazione che Whiplash fa del jazz, ma nessuna ha a che fare col numero di note, partiture e ore di studio e di prove che vengono mostrate nel film. E chi conosce la musica lo sa molto bene.
Ora, perché me la prendo tanto? Perché ognuno dei musicisti o appassionati di musica che leggerà questo articolo trovandovi questo tipo di riferimento al jazz, si fermerà, si stupirà, poi urlerà e, quindi, volterà pagina, dimenticandosi della questione fondamentale, ovvero “Whiplash porta avanti un’ideologia pericolosa”. E dire, in più, che se c’è qualcosa di male in quest’ideologia è perché ha a che fare con la destra, è pericolosamente riduttivo. Perché non fa cogliere la centralità e trasversale prevaricazione di questa principio settario all’interno dell’odierno complesso delle nostre vite quotidiane. Qui, nel primo mondo, s’intende.