Eppure, sotto la routine – fragile, fragilissima – del vivere permane quel sentimento d’attesa. Tutti aspettano: chi il proprio marito messo in galera proprio in quel giorno di festa (oh, il palloncino giallo), chi un viaggiatore che abbia la cortesia di ripagare il servizio che gli è stato offerto (solo una moneta, un pezzetto di metallo da rigirare nelle mani e Hasan avrebbe potuto rincasare con la luce), chi una lettera della propria amata (e la legna brucia, arde, infiamma), chi aspetta di non aspettarsi più niente a causa dell’impotenza obbligata dalle sbarre (ma il sesto senso paterno fa urlare di rabbia). Sotto la cornice purificante – per l’occhio – c’è una brace che non si spegne, moti perpetui di analessi con i relativi, nostalgici, rimpianti.
La regia rappresenta un esordio perché Selim Güneş di mestiere ha sempre fatto l’ingegnere elettrico e solo dall’89 in avanti anche il fotografo. Tuttavia non c’è nessun timore riverenziale verso il Cinema da parte di questo regista turco, sarà l’ambientazione che visto il nocciolo rurale sprigiona sottovoce tutta la potenza originaria delle cose (sul tema c’è anche il connazionale Beş Vakit, 2006), o sarà la bravura insita nella professione di Güneş, fatto sta che il film ha una bellezza estetica di prim’ordine capace di catturare lo sguardo, e a ciò si aggiunge una conformazione intrigante disseminata di rime visive, alcune non facili da cogliere, e da flashback che non esitano a confluire nel presente donando un tocco di disorientamento. Il finale poi adombra la vicenda perché non basta un coltellino, sebbene forgiato dalla mano sapiente di un papà coraggioso, a fermare chi da sempre attende senza alcuna fretta: la morte.