Teresa Silvestris 3 ottobre 2013
In un’intervista rilasciata al British Journal of Photography nel 2011, il regista tedesco Wim Wenders spiegava la differenza tra il giornalista Philip Winter, protagonista di Alice in the Cities (1974), e il fotografo Finn di Palermo Shooting (2008). «Philip Winter – affermava – era il mio alter ego. Fotografava perché non sapeva in che modo scrivere dell’America. E io ho pensato che fosse abbastanza rappresentativo del giovane uomo che ero a quei tempi. Finn è molto meno “me” di Philip Winter perché è un fotografo che si compiace della fotografia. Come tale, egli usa strumenti digitali per comporre le sue immagini. Qualche volta lo si vede all’opera che sostituisce cieli e crea nuovi mondi attraverso diverse fotografie. Il concetto dominante di fotografia, oggi, è produrre un’immagine. Non sono un nostalgico. Dico solo che vi è un approccio diverso, ed è molto più di un avvicinarsi pittoricamente, alla fotografia, e ciò che amo di essa è andato perduto».
Ciò che secondo Wenders si è perso e che si ritrova nei suoi “Appunti di Viaggio. Armenia, Giappone, Germania”, venti scatti tratti dal libro Places, Strange and Quiet (2011) in mostra fino al 17 novembre a Villa Pignatelli a Napoli, è il leale rapportarsi del fotografo con la scena che ha davanti. Il percorso espositivo illustra con grande chiarezza ed efficacia quella che si manifesta come una vera e propria ossessione per la realtà e i modi di rappresentarla. Il regista predilige gli “spazi del nulla”, i “fuori luogo” solitari e inconsueti ma non per questo meno carichi di presenze e di storia. Una strada, un edificio, una pompa di benzina, un alfabeto nel bel mezzo della steppa, un parco giochi, un cimitero, una ruota panoramica abbandonata, una scritta su di un muro sono per lui la traccia di un’identità che la fotografia ha il compito di fissare prima che ne avvenga la trasformazione o la definitiva scomparsa.
Apre l’esposizione Il vecchio quartiere ebraico. Berlino (1992) a cui si succedono le ampie distese dell’Armenia, gli esotici paesaggi urbani e naturalistici del Giappone e altri diversi scorci della sua Germania. L’atmosfera, contemplativa e minimalista come nei film di Yasujirō Ozu del quale celebra la memoria in Onomichi al crepuscolo (2005), riflette con straordinaria immediatezza il suo stato d’animo al momento dello scatto. La forza di queste immagini si poggia quasi interamente sull’evocazione e spesso sul gioco dell’assenza/presenza. Davanti a Il mare vicino a Naoshima (2005) sembra davvero di perdere la cognizione del tempo mentre in Cimitero in città. Tokyo (2008) l’allusione alla morte parla della vita più di quanto potrebbe fare la vita stessa. Anche la Ruota panoramica (2008) che con la sua silhouette devastata si staglia nel cielo armeno richiama alla mente voci di persone in una giornata di festa. La sintesi simbolica operata da Wenders si rivela quanto mai necessaria dove lo spazio è concepito come storia. La storia è narrazione continua, non riassumibile né tantomeno esplicabile e anche a volerla rappresentare “le foto non coincidono mai con la realtà” afferma Philip/Wim. Dunque la rappresentazione implica un’ulteriore scelta, quella di estrapolare l’attimo, l’istante dell’incontro tra colui che osserva e ciò che è osservato e mostrarlo senza filtri né sofisticazioni.
La tecnica usata è quella analogica perché se il fine dello strumento fotografico è quello di restituire un’immagine reale, il digitale, con la possibilità di cancellare lo “scatto sbagliato”, di migliorare il colore e la luce, di aggiungere sfumature e mettere in risalto alcuni dettagli, costituisce una falsificazione, l’antitesi dell’atto del fotografare. Rimaneggiando l’immagine si rimaneggia la verità di quel momento e, in definitiva, la storia. Se ne altera per sempre la purezza, riducendola a merce da piazzare sul mercato. Il digitale è “il solco tra la realtà e la sua rappresentazione” destinato a divenire incolmabile. Contrariamente che nel cinema, dove Wenders ha accettato e addirittura precorso l’avvento delle più avanzate tecnologie, qui c’è il rifiuto di ogni infrastruttura, di ogni intervento che implichi una selezione e uno scarto. Ne deriva un tragitto emozionale in cui, a dispetto delle dichiarazioni, di nostalgia per ciò “che realmente esiste” se ne sente davvero tanta.
Gli scatti dedicati alla mostra inseriti nell’articolo sono di Teresa Silvestris