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WINE ON THE ROAD: il racconto “Etichetta” di Jennifer Ravellini

Da Silviamaestrelli
WINE ON THE ROAD: il racconto “Etichetta” di Jennifer RavelliniJennifer Ravellini nasce a Piacenza. Conseguito il diploma linguistico, nel 2004 si laurea in Lettere Moderne presso l’Università Cattolica di Milano. Aiutobarista, scrive da sempre.Vive a Travo in Val Trebbia. Per “Wine on the road”, concorso letterario 2011 di Villa Petriolo, ha scritto il racconto “Etichetta”. Racconto “Etichetta” di Jennifer Ravellini.Da più di quattro giorni Armando non metteva il naso in superficie. Non proprio un carcerato, uno speleologo piuttosto. Illuminava la cantina con curiosa lucidità: ne percorreva le distanze, esaminando con cura ogni bottiglia, e provava a decifrarne carattere e contenuto sotto il controllo vigile e muto del padre. Poi annotava nomi e date, lasciandosi sfuggire di tanto in tanto esclamazioni di sorpresa. Ripercorreva la geografia enologica di famiglia, tentato dalle più suggestive associazioni alfabetiche:“B come Barbaresco, Barbera, Barolo, Barrique. C come Carmignano, Chianti, Cavatappi, Clara”, sua madre. Da quando se n’era andata il padre aveva rinunciato a vivere e si era rinchiuso nella sua cantina imprigionato nel mutismo più ostinato. Nessuno era stato in grado di capirne le espressioni o di intercettarne i pensieri. Il vecchio seguiva muti percorsi solitari in preda ad una cocciuta rassegnazione. Ad Armando non restò altro che prendere il coraggio a due mani, preparare le carte per il ricovero in istituto e mettere ordine nella cantina paterna prima della vendita. Non poteva permettersi la retta dell’ospedale e, a malincuore, delegò alle bottiglie il compito che non riusciva ad assolvere. Sotto quelle volte a botte si erano consumate degustazioni di ogni tipo. Oreste era solito acquistare bottiglie di vino rosso da ogni parte d’Italia in cui si trovasse, affinando così il suo palato fino a trasformarsi in un profondo conoscitore della materia. Non uno di quei sommelier imprigionati in asettiche movenze sacerdotali, bensì un uomo autenticamente interessato al mondo del vino: i vitigni, i profumi, i colori e i produttori migliori avevano sfilato davanti ai suoi occhi e riempito la sua cantina come preziosi souvenir di una vita ricca d’incontri. Oreste adorava le vendemmie, le voci che si rincorrevano tra i filari, l’appiccicaticcio degli acini tra le dita e il sudore del tramonto. Stappava con avidità ogni bottiglia, ne catturava per primo l’odore pungente, scorreva con precisione la scala cromatica e si preparava all’assaggio senza la minima affettazione. Pochi cenni risoluti, brevi sorsate soppesate, infine la generosa condivisione con chi aveva la fortuna di trovarsi al suo cospetto. Non amava i grandi oratori, apprezzava piuttosto la spontaneità dei gesti e la dignità del lavoro. Determinato in gioventù quanto arrendevole in vecchiaia, le sue bottiglie gli si paravano dinnanzi a riassumergli la vita come i titoli di un libro giunto ormai all’indice finale. “Possibile che non ci sia altro vino umbro di questo Sagrantino di Montefalco?” esclamò Armando un po’ interdetto, “e dire che siete rimasti in Val Topina per quasi due mesi!”.Ad Oreste si spalancò lo sguardo: le composte di frutta, il cuoio, la cenere di legna e il calore del fiato sul collo di Clara. La stanzetta tra i sassi e gli ulivi aveva protetto i loro abbracci e concepito il piccolo Armando. Deglutì la sorsata immaginata e chiuse le palpebre. “Montepulciano d’Abruzzo. Ventisei bottiglie dell’83”. Poi la mano di Armando sgusciò al vino successivo. Gli studi di ragioneria sembravano a dir poco provvidenziali in quell’elenco infinito di numeri.Oreste invece odiava i numeri e non riusciva a tenere a mente le annate. Riconosceva i vini coi sensi, non con la calcolatrice alla mano. Gli sfuggivano quantità e prezzi e scordava immancabilmente gradazioni alcoliche e rese per ettaro. Idiosincrasia per le cifre, tentativi di abbattere le date e le età come per sfuggire ai trabocchetti del tempo che passa. “Primitivo di Manduria” proseguì Armando indaffaratissimo. Oreste ritornò al loro primo incontro, a quegli occhi di Negroamaro profondi come il pozzo della masseria e appuntati sul suo bavero alzato: “Oreste, posso presentarti mia figlia Clara?”. Le morbide rotondità del vino del contadino gareggiavano con quei fianchi sinuosi. Pura eleganza. Quasi un Rachmaninov. Da quel momento non si sarebbero più lasciati. “Cannonau e Carignano del Sulcis. Tenuta… mmh… praticamente incomprensibile questa etichetta”.Oreste ripeté mentalmente “etichetta”. Una “pioggia nel pineto”. L’allitterazione tamburellò ossessivamente quasi fosse il ticchettio di un pendolo. Tic tac… i tacchi a rocchetto di Clara. Etichetta, l’ennesimo prestito dal francese. Il vecchio odiava la supponenza d’oltralpe, la vanagloria dei vini di Borgogna perennemente coi nasi all’insù. Il naso di Clara era tutt’altro che perfetto, ma aveva il carattere di un Cannonau dimenticato in cantina di cui arrivi perfino a masticare il fondo. Un vino arrugginito come la voce di Tom Waits. Spigoloso e imperfetto, mai di moda. Gli appassionati del pinot nero, gli Archipenko del retrogusto e della complessità in bocca non avrebbero mai osato frequentare certe bassezze. Oreste invece era un Baudelaire del calice, capace di raschiare la damigiana degli inferi quanto di elevarsi al perlage del paradiso.“Non resta che la Sicilia. Un ultimo sforzo” sospirò Armando ormai stremato.Immobile come un Gattopardo, il vecchio inclinò di poco il capo verso destra. Gli sovvennero le Eolie, con quei grappoli arroventati dai vulcani emersi. E poi le vigne alle pendici dell’Etna, tenacemente eroiche in un’aridità tanto precaria. Il profumo delle zagare, le labbra di Clara sporche di ricotta, le cupole normanne e la luce di Antonello da Messina. Disdegnava le mani che celebravano matrimoni tra gli uvaggi. Oreste era un uomo da Nero d’Avola in purezza. “Ci siamo” esclamò Armando con malcelata soddisfazione. Poi si accorse di un’ombra in un angolo polveroso. Lasciò lo sgabello titubante. Si sgranchì la schiena con alcune mosse studiate e si avvicinò perplesso al punto più buio della cantina: un’ultima bottiglia dal collo lungo spuntava tra le ragnatele. L’afferrò. La ripulì. La rigirò tra le mani e si avvicinò alla lampadina:“Non ha etichetta”.Oreste impallidì. Gli venne in mente un temporale in Liguria. Clara che gli si schiacciava contro. La sapidità salmastra di mare e lacrime. Il loro segreto. Si confuse per un attimo con un Ormeasco. Poi sbatté le palpebre nel vano tentativo di ripescare dettagli nella memoria. All’improvviso il passato si annullò, ingiallito al posto suo da improvvisa cirrosi epatica. Il vuoto. Quella bottiglia sarebbe rimasta priva d’identità e orfana di ricordi. Probabilmente la bottiglia migliore, l’unica che Oreste e Clara non avrebbero mai potuto bere insieme.

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