L’aria spettrale, d’incurvata familiarità (elementi famigliari che nel giro di un paragrafo diventavano alieni) che accompagnava, che anneriva ogni parola pubblicata da questo autore non si respira più. Almeno non si respira in questo libro. Poi, coi prossimi, si vedrà.
Un attimo però, questo diario invernale è la seconda parentesi tonda che ne chiude una aperta nel gennaio del 1979; Il libro, e in particolare la sezione del libro a cui faccio riferimento è Ritratto di un uomo invisibile pubblicato nel volume L’invenzione della solitudine.
“L’uomo invisibile” è Sam Auster, padre di Paul, morto all’improvviso di attacco di cuore la stessa notte di gennaio in cui Auster stava riprendendo la penna in mano dopo la sua lunga stagione all’ inferno in cui non aveva scritto nulla ma si era limitato a perdere pezzi della sua vita (matrimonio, capacità di progettare, di sognare, di sperare).
La notte in cui Sam Auster esce dal mondo, Paul scrittore viene alla luce e comincia a lavorare a uno zaffiro di rara bellezza: Ritratto di un uomo invisibile, appunto.
È mia inscalfibile convinzione che se Sam Auster non fosse morto suo figlio Paul non sarebbe mai nato come scrittore; il padre, morendo, si è trasformato in una cupa musa che ha dominato e pervaso i cieli, le strade, le stanze, le case dei romanzi di Auster.
In questo diario d’inverno, si parla di morte, di fine della vita, di esperienze vissute e non più ripetibili per ragioni di anagrafe, perché un certo tipo di passato cessa di essere prossimo e comincia a diventare remoto, perché il mondo nel quale hai vissuto la maggior parte dell’esistenza semplicemente non esiste più.
Auster ci racconta il suo ingresso nel tratto invernale dell’esistenza, ma i pensieri, le gelide sensazioni, tuttavia, escono dalle labbra di una persona ben piantata nel mondo, in questo mondo. Paul Auster è entrato a far parte della numerosa, solida famiglia di sua moglie che definisce giustamente una tribù. È sposato con una bellissima donna che pare ami come un cantante confidenziale degli anni ‘50 ama la sua Jenny, Paula, Mary o Lucille; ha una casa, ha una figlia, ha, soprattutto, un’identità solida, ferma e che un tempo era evanescente e che ammantava la sua prosa di un non so che di sinistro.
Si parlava di parentesi tonde: la prima, come si è detto, viene aperta con la morte del padre, mentre la seconda si chiude con la morte della mamma. Stranamente se il padre è stato l’invisibile, l’aria di fuliggine vittoriana, la mamma pare essere stata il mondo, la protezione, la fiducia, la socialità, ma mai una musa. Si è soliti pensare che una musa porti almeno una prima di reggiseno, che insomma la sua dimensione sia femminile, almeno per gli autori. Qui non è così: la musa ha il volto di pietra, dal sorriso deserto, perturbante appunto, di Sam Auster.
È interessante notare che, nelle ultime pagine, il padre rientri in questo libro famigliare, di quieta malinconia, dalla finestra dei sogni. Paul Auster racconta che sogna ancora suo padre ma che lui se ne sta là fermo senza pronunciare una parola. Silenzio. Personalmente tendo a pensare che questo silenzio coincida con il silenzio di una tinta, la più fosca e interessante dell’arte di Paul Auster.
Se chi leggesse queste righe avesse il dubbio se comperarsi per Natale questo diario invernale leggere, qualora non l’avesse ancora fatto, Ritratto di un uomo invisibile, be’, io non avrei dubbi e mi dirigerei con grande slancio sulle poche poderosissime, bibliche, direi, paginette del “ritratto” e lo leggerei e rileggerei come altri pare leggano alcuni libri della Bibbia.
P.S.
Ho letto Diario d’inverno in inglese (Winter Journal è il titolo originale) e, quindi, non posso dire nulla circa la traduzione italiana, ma nemmeno accampare scuse sostenendo che la fiacchezza della prosa è dovuta a una traduzione inadeguata.