Magazine Cinema
(s)oggetti filmici che avrei sognato diversi, su cui, solo in virtù della fiducia (e ti pare poco!) avrei scommesso tutto quanto. Eppure "Winter Sleep", palma d'oro all'ultimo festival di Cannes, si è rivelato una parziale delusione. Chi scrive è un amante del cinema di Ceylan: negli ultimi due anni le immagini della sua Anatolia ritornavano continuamente alla mia mente. Eppure in "Winter Sleep" qualcosa si è spezzato drasticamente: mi è sembrato che tutte le immagini avessero un fondo opaco, dimentiche della trasparenza e dell'ambiguità delle sue storie. Tutto risiede nel visibile e nel dialogico, senza nessuno slittamento, senza nessun fuori campo invisibile che possa concederci uno scambio di sguardi, una vera, autentica, partecipazione. L'impressione è che il regista turco si sia, in qualche modo, costretto in interni, per erigere un mondo d'interiorità che non riesce mai ad emergere se non con la pena ostentata di tutte le sue costruzioni narrative, i suoi dialoghi artefatti come mai, il suo palese, manieristico, ricadere nel "film da festival".
Stratagemmi narrativi telefonati, simbolismi che non riescono mai ad accedere alla poesia, ma rimangono statici, appiccicati alla crosta dell'immagine.
Opera ambiziosa certo, ma tutto sommato fallimentare: ci sono diversi bei momenti ma manca completamente un'epifania, una scintilla, una meraviglia che possa legittimare la durata e l'essenza stessa del film. E' proprio la forma dialogica a rivelarsi debole e pedissequa, perché se il cinema di Ceylan era ieri soprattutto un cinema di immagini e visioni, oggi è divenuto cinema di parola: un (quasi) kammerspiel che però non è in grado di riscoprire alcun universale, alcun mondo esterno all'interno del "teatro" in cui è ambientato. Ne deriva un film troppo chiuso in se stesso per permettere di accedere, anche silenziosamente, nel cuore della sua monade. Si finisce per sentirsi respinti, e quando vorresti che Ceylan si soffermasse su quel "più" del visibile, ecco allora che indietreggia e viola il suo stesso tempo interno. Un vero peccato.
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