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Gli ci sono voluti quasi dieci anni e svariati dietro front per dare un seguito a quel Wolf Creek che, nel 2005, cadeva al suolo e lasciava un solco come il cratere meteoritico che omaggiava. Le cose che funzionavano in quel gioiellino erano tante, una media di parecchio superiore a qualsiasi cugino cinematografico girassero nel periodo post Alta tensione, e non era solo questione di buona scrittura, con personaggi realistici che comunicavano con espressioni umane e non per frasi fatti del tipico modello comportamentale teen: la desolazione allucinante di un luogo arido, vasto e terribile, una violenza feroce e luciferina che usava il gore non per richiamare il pubblico giovanile o comunque un certo tipo di spettatore che annusava la moda, bensì per rendere ancora più spietata la sofferenza dei protagonisti, e infine un grande bad guy, un John Jarrattstrepitoso che rendeva indigesto ma forte, pieno e credibile, il suo aussie redneck, un mostro imprevedibile che agiva senza alcuna regola. Già con un film potente e ustionante, Greg McLean lavorava di dettagli per rifinire e rendere memorabile quello che sulla carta era, o poteva diventare ed essere ricordato, un film come tanti, dove un gruppo di giovani mediamente e culturalmente inutili diventano carne da macello di un sadico strafottente con l’amore per gli occhi strappati e le ossa spezzate.
In tutti questi anni McLean non è che abbia fatto molto, gli si dà atto di non aver scelto la strada più facile e remunerativa puntando tutto su un sequel che di fatto poteva mettere in piedi in pochi minuti, ma con il successivo e pur discreto Rogue, un crocodile-movie, sembrava già assestarsi su coordinate più classiche, meno personali in quanto ad atmosfera e ricerca visiva. Poi, togliendo la produzione di due film grossomodo evitabili come il western Red Hill e il piccolo sci-fi Crawlspace, sette anni di nulla, passati probabilmente a meditare in cerca di qualche folgorazione zen sulla strada da prendere in futuro, che sì, guarda caso è proprio quella del sequel a quel suo primo film che tanto era piaciuto a tutti.
Ora, a me i sequel generalmente piacciono, mi stuzzica l’idea di ritrovare personaggi, ambientazioni o particolari stili e vedere come possano venire riproposti, la curiosità di incontrare piùcose (piùmostri, piùsangue, piùmazzate) è di solito abbastanza testarda da sottovalutare la razionalità qualitativa con cui i seguiti nascono e grossomodo replicano il capitolo originale cercando di non alterarne troppo lo schema perché i fan, perché la produzione, perché i soldi. Ed è così che, colpo di scena, McLean è tanto intelligente da prendere tutto quello che aveva di buono Wolf Creek e buttarlo via per farne un atto secondo che con il primo ha in comune soltanto uno dei più grandi villain, adesso sì, che la storia del cinema horror ricordi.
Dimenticate la brutalità psicologica, dimenticate lo squallore fisico, ma lasciate anche perdere qualsiasi soluzione innovativa o che cerchi di dire altro: le domande che si è posto McLean prima di (ri)cominciare sono molto più semplici e indagano a monte, e solo questo basterebbe per volere bene a quest’uomo che dell’horror pare aver capito, se non tutto, parecchio. Serve ancora descrivere e presentare un branco di deficienti per poi farli morire in modo brutto? Serve ancora costruire personaggi, forzarne la serietà per dare il clima giusto alla storia, se poi a chi guarda interessa altro? Serve ancora rappresentare il killer come l’incarnazione del male puro, un’estensione demoniaca che sventra e decapita per far sentire a disagio chi compra il biglietto per lo show? No. O meglio, McLean ha già sfruttato questi elementi e chiaramente non gli interessa ripetersi, perché in passato l’ha fatto bene e piuttosto che farlo male allora niente, si cambia, fanculo a chi voleva il sequel a tutti i costi, questo è quello che ti meriti. Alleluia. È una filosofia che mi fa apprezzare ancora di più l’uomo che c’è dietro.
Wolf Creek 2cambia totalmente registro, è un film divertente, di un’ultra-violenza sfoggiata con taglio ironico e sfrontato, è per gran parte della sua durata un road movie frenetico e tesissimo ed è, soprattutto, il film in cui Mick Taylor non solo ruba la scena a tutti ma diventa effettivo protagonista, perché Wolf Crek 2 non parla di quattro disgraziati che hanno la sfortuna di incontrare Mick e tentano di fuggire, ma di Mick e del modo in cui uccide le sue vittime. Rimangono i teen petulanti, un paio di crucchi in vacanza caratterizzati comunque con un gusto e una dignità che mostrano subito di che pasta differente sia il cinema di questo giovane regista australiano, e infatti McLean se ne sbarazza in pochi minuti dando il là alla prima trasformazione della pellicola, che per i successivi novanta minuti muta prendendo un po’ il meglio degli slasher/torture/revenge, masticandolo e rigettandolo come un bolo eccessivo e sopra le righe. Basterebbe il prologo per farsi un’idea, dieci minuti viscidi e violenti dove l’ironia acida di Mick viene vomitata attraverso l’accento e il tono di voce di un John Jarratt incredibile e nel ruolo della sua vita, e si conclude con un headshot micidiale dove i primi piani fotografano quasi con divertimento ciò che resta di una testa maciullata. Il resto è tutto in salita, con i più classici cliché interruptus e rivoltati con stile (i primi omicidi di Mick, delle belle rasoiate a sorpresa), che innescano la sostituzione di quello che può essere definito l’antagonista (già, ricordatevi che il protagonista è Mick) e un massacrante inseguimento nell’Australia più desertica e inospitale. McLean tiene sempre alta l’attenzione, ancora una volta lavora di dettagli e sono questi a fare la differenza nell’inscenare un testa a testa arroventato, una parentesi d’ansia in una casa di vecchietti o un sotterraneo labirintico per spingere sempre con una reprise atroce e svariate secchiate di viscere. Anche quando il film si assesta su lidi più convenzionali, come la lunghissima scena di tortura nel covo di Mick, McLean non molla mai la presa, e per quanto si scada un po’ nel bignami del torture porn tra dita segate, mutilazioni assortite e motivazioni poco convincenti, la carica carismatica di bad ass totale come Mick tiene unita la scena e la catapulta addosso a un bravo Ryan Corr che sa tenergli testa con il giusto equilibrio di fifa nera, sottomissione e desiderio di vendetta. E quando sembra che finalmente siano tutti pronti a calare il sipario, c’è ancora spazio per un paio di scossoni viscerali, una bastardata in particolare ha buone probabilità di essere ricordata ever and ever e mostra come McLean, coadiuvato alla sceneggiatura dall’esordiente Aaron Sterns, sappia giocare con quel gusto e quella brillantezza le sue carte, ben sapendo di non poter barare con la mano che si ritrova come fanno tanti colleghi perché, si sa, prima o poi il bluff verrà fuori, né tantomeno strafare, perché, semplicemente, non ne ha bisogno
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