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L'Australia è paese di artisti. Davvero, la poco considerata Australia (ma l'Oceania in generale) ha sempre sfornato personaggi di un certo spessore, sia nel campo della musica che in quello del cinema.
Ok, quante volte ho parlato di horror su questo blog? Un'infinità. Quindi quello che sto per scrivere vi sembrerà già sentito: l'horror è morto. Anzi, è moribondo, lo stanno torturando e non sappiamo quanto ancora potrà resistere. Nel 2004 la situazione era quasi disperata: in America si producevano horror con lo stampino, i primi remake, i primi torture porn e scoppiava la saw-mania; in Europa non era ancora arrivata la new age di registi come Marshall (che gira The Descent un anno dopo), Laugier, Maury & Bustillo e compagnia bella mentre in Italia il cinema di genere era già scomparso da anni e i pochi esempi di cinema dell'orrore che ancora esistevano continuavano a passare inosservati. In Australia invece uno sconosciuto Greg McLean gira l'ennesimo survivor di hoopperiana ispirazione ma con qualcosa in più, un asso nascosto nella manica. Perchè in Australia ci sanno fare e lo sanno fare bene. Esce così Wolf Creek.
La storia è la classica, "sempre la stessa" direbbe qualcuno: tre ragazzi si ritrovano con la macchina in panne durante un’escursione al Parco Nazionale di Wolf Creek. Sono Ben, australiano, Liz e Kristy, inglesi, e vengono soccorsi da un errabondo cacciatore di nome Mick. Le cose non andranno per il meglio, ma quando mai lo fanno?
La diversità di un film del genere sta nello stile. Ispirato a fatti realmente accaduti (Ivan Milat, famosissimo assassino di turisti nel deserto australiano), Wolf Creek è la documentazione di una battuta di caccia, il resoconto asettico di una battaglia per la sopravvivenza tra un cacciatore di esseri umani e le sue prede. A far da sfondo un cielo livido, acqua gelata e un deserto che di caldo non ha un bel niente.McLean imposta la storia come al solito: ci presenta i protagonisti, ci mostra un momento particolarmente felice della loro vita e poi li trasforma in vittime, fa incrociare la loro strada con un mostro e lascia che questi macelli i loro corpi e le loro menti fino all'inevitabile morte. Però non la sviluppa come ci si aspetta, perchè la tortura, la morte e il dolore nel suo film sono solo di contorno: quello che sembra davvero interessante, per lui, è quel che c'è in mezzo, il silenzio, l'attesa. In altre parole, la caccia. Per questo lo splatter è limitato (ma quando c'è si nota benissimo), per questo le sequenze sono lunghe, immerse nel tempo e nel silenzio. Per questo la camera a mano indaga senza gusto voyerista sui volti e sui corpi dei personaggi nel momento in cui sono più vulnerabili. La quasi totale assenza di musica e una fotografia livida persino quando il sole splende ed è alto nel cielo, incorniciano un paese che è proprio come il Parco Nazionale che da il nome al film: un cratere immenso e profondo nella terra. E' impossibile risalirlo, è impossibile non farsi prendere da un senso di vertigine che anticipa la caduta. E infatti per i tre ragazzi non c'è scampo ne salvezza, seppure dovessero salvarsi avrebbero perso loro stessi in questo scontro con la natura selvaggia.
Sì, natura selvaggia. L'Australia è uno di quei pochi paesi ad avere una natura selvaggia che minaccia la metropolizzazione del territorio. Presenta delle zone talmente inospitali (e lo si dice nel film stesso) che l'uomo ha dovuto far fagotto e andare via. Non è un paese a misura di essere umano, non tutto almeno. Mick il cacciatore, il serial killer, lo psicopatico, è forse la rappresentazione di tale natura. Perchè ha tutto il tempo del mondo, non gli si può sfuggire e, soprattutto, punisce gli stranieri e con loro la civiltà che rappresentano. La sua è quasi una vendetta e nel vendicarsi Mick non sbaglia un colpo. Ad interpretarlo è John Jarratt, comico televisivo che nel film si trasforma e riesce a spaventare anche solo con uno sguardo. Immenso come l'Oceania.
In effetti ci sono molte cose che non tornano in Wolf Creek, e non sto parlando degli inevitabili buchi di sceneggiatura che spuntano qua e là ma di un simbolismo di fondo che è impossibile non notare. Come ad esempio quando prima gli orologi e poi il motore della macchina si fermano. Inizialmente siamo portati a pensare che non c'entrino nulla con l'arrivo di Mick ma poi, ad un certo punto del film, scopriamo che lui ci è sempre stato, solo era invisibile, quasi intangibile. E anche alla fine Mick sparisce. Dopo aver seminato morte e terrore svanisce, scompare, diventa un fantasma. Noi pensiamo che sia fuggito, che si sia nascosto, ma non lo possiamo sapere con certezza perchè lui è impregnato di sabbia e alla fine si fonde col deserto, tornando a essere invisibile. Allora sembra quasi di avere di fronte un essere ancestrale che prima aspetta, poi subisce e infine ottiene la propria rivalsa in un gioco perverso che ha come unico scopo l'affermazione di se sulle proprie vittime.
Concentrato di cattiveria, spietato e privo di compiacimento, l'opera prima di Greg McLean fa paura perchè proietta lo spettatore nella solitudine di un luogo inospitale. Il naturalistico percorrere con la camera una realtà che potrebbe sembrare persino alternativa. La bellezza mortale del sublime. Noi siamo lì per grazia del regista, sotto la sua totale protezione, altrimenti potremmo diventare anche noi vittime del luogo, vittime del mostro. Un mostro che si compiace del proprio potere e che per questo è ancora più pericoloso. Di certo non è il solito film, anche se a molti non è piaciuto e continua a non piacere. Però a quasi nove anni dalla sua uscita, nonostante tanti horror e tanti film, è ancora in grado di tenere incollati alla poltrona.
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