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Il secondo lungometraggio dedicato all'X-Men per eccellenza, quello dall'appeal intaccabile quasi quanto la struttura ossea che lo rende indistruttibile, si dimostra uno spettacolo imbarazzante e impacciato come pochi visti al cinema ultimamente. L'esperienza di James Mangold non risulta sufficiente per risollevare le sorti di un personaggio che lontano dalla sua squadra, in solitario, poco o niente è riuscito a racimolare, e ogni tentativo del regista di provare a intercettare la falsa riga dei cinecomics migliori deve fare i conti irrimediabilmente con una sceneggiatura terrificante e approssimativa, che non fornisce neanche la minima possibilità di sprigionare energia e vitalità. Un costante vorrei ma non posso, incapace di percorrere sia la strada dell'intrattenimento che tantomeno quella più articolata basata sulla ricerca della pace interiore, e costretto per questo a svoltare tra le mura di un limbo a dir poco stretto quanto goffo.
E’ la noia quindi la protagonista che ruba spazio al tormentato Logan, agevolata da una partenza sbiadita e sostenuta che anticipa una preoccupante mancanza di idee e un dosaggio d'azione questa volta somministrato col contagocce. Tutte strategie concepite per privilegiare l’esecuzione di una trama che ha l’obiettivo di conquistare lo spettatore rimanendo a bersaglio puntato su demoni, fascino e gesta del complicato e irresistibile (anti)eroe che racconta, e che proprio in mancanza di altri sostegni finisce per appesantire sempre gli stessi portandoli prima al cedimento e poi alla rovina. Collocabile sia come sequel di "X-Men: Conflitto Finale", sia come anello di congiunzione tra quel film e il prossimo "X-Men: Giorni di un Futuro Passato", il lavoro di Mangold assume lentamente e involontariamente così le forme inaspettate di un prodotto trash dal colore nitido e dall'aspetto grezzo. La storia saccheggia gratuitamente riferimenti a titoli famosissimi, per pigrizia poi li assesta tra loro alla buona ed infine ultima il collage con un colpo di scena assolutamente indegno di essere chiamato tale.
Hugh Jackman nel suo piccolo esce vittima illesa da questo spietato massacro: rimane dedito alla causa, testardamente in parte e decisamente incolpevole verso le incursioni ridondanti dello spirito di Gin, le bruttissime battute che è costretto a pronunciare e lo humour da quattro soldi, fastidioso con cui la pellicola pretende di strappare risate che mai si fanno sentire (almeno non volontariamente).
Errare è umano, perseverare divino.
Nel caso in questione bisognerebbe andare ad inserire un veto che impedisca tuttavia di procedere oltre. Non siamo certo qui a chiedere ad ogni lavoro tratto da un fumetto il vincolo di raggiungere le vette toccate da Sam Raimi, Ang Lee o Christopher Nolan, che passino pure i spettacoli di intrattenimento onesto e discreto, purché non siano trasformati in torture visive, scempi, e costringano noi, povere vittime, a guardare le lancette dell'orologio, ansiosi di uscire il prima possibile dalla sala.
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