Le cose che uno scrive sul computer da sempre danno un sensazione particolare perché vedersele così stampate, anche se sono stronzate allo stato puro, fa una certa impressione. Che già era una bella sensazione con la macchina da scrivere, ma dio mio, ci sarà pure il fascino della Lettera 22 ma tutto quel baccano. E tac tac tac taratac e ding e il carrello e il bianchetto, di notte mica si poteva stare svegli a soddisfare le proprie esuberanze di personalità. Già, tutti noi che veniamo dai diari dei ricordi, dai manifestini dei concerti scritti con il pennarello o per imitare le copertine dei dischi punk con le le lettere tagliate dalle riviste come le missive anonime che chiedevano il riscatto delle persone vittima di sequestro di persona e poi fotocopiati e appesi nella vetrina del bar del centro e di straforo sulla bacheca de l’Unità.
Si usa il computer per scrivere perché vedere nero su bianco il nostro pensiero ci riempie di orgoglio. La parola sistemata per bene con lo spazio prima e dopo fa un po’ paura, è scritta e l’autore ne è responsabile. Se poi è pubblicata si è anche passibili di querele, guai, ritorsioni, sanzioni, minacce. Le parole hanno un peso, quelle scritte nell’Internet diventano fossili e non se ne vanno più. E oggi, anzi già da tempo, non è solo il nero su bianco che ho scritto sopra, perché ci sono tutti i colori, i formati, le clip art, inserisci una foto, fatti fare l’impaginazione dall’amico che sa usare Illustrator, l’editoria fai da te e i posti dove puoi mettere in vendita un e-book. Ma per esercitarsi come faccio io, figuriamoci poi con questi template tutti così eccitanti e gratuiti, che a uno viene voglia di provarli tutti come i vestiti delle boutique per leggere le proprie parole tutte imbellettate. Ed è un atto di autocompiacimento fino all’osso perché nemmeno nei libri e così. A nessun editore verrebbe mai in mente di stampare un romanzo con questo sistema dei titoli, delle categorie e tutto il resto. I link degli amici qui a fianco.
Quindi quello del self publishing è ancora un passo oltre e non era di questo che volevo parlare. Mia figlia chiama il doppietto quel modo di scrivere le parole con le lettere contornate, non so se avete capito ma facciamo finta di sì. Quello stile di grafia che piace a tutti i bambini. Bene, io ne andavo matto e riempivo quaderni così. Al di là del contenuto e del significato, che in quello stadio della vita è irrilevante, c’era il fascino estetico della parola in tutto il suo volume bidimensionale. Poi, quando che cosa scrivere ha acquisito sempre più importanza come è normale che sia nella vita di ognuno, il corsivo per motivi di comodità ha preso il sopravvento sul resto. Ma non ho mai amato particolarmente la mia grafia, scrivevo tondo a scuola fino a quando avevo letto non so dove che scrivere inclinato in un certo modo denotava acume intellettuale e allora vai di temi tutti storti, che a rileggerli facevo fatica pure io.
All’università si passa di livello, perché come dice l’indovinello veronese la penna è l’aratro, lo strumento di lavoro che serve a scrivere appunti, lo stile diventa approssimativo tendente allo stenografico tanto ci devo capire io poi quando preparo gli esami. E osservavo con mestizia quei fiori d’inchiostro sfiorire, le parole marcate e sottolineate solo per essere comprese al più presto e poi lasciate evaporare al proprio destino. Tanto più che nel frattempo la videoscrittura era dietro l’angolo. Anzi, oltre le porte degli uffici, sulle scrivanie di segretari e contabili, ma non ancora nelle case.
Così, quel bel giorno in cui abbiamo conquistato una periferica di input alla completa nostra mercé ha generato uno stato di onnipotenza, il testo che si componeva riga per riga, il conflitto interiore se badare alla forma con il font, le dimensioni, il giustificato, il tracking, l’interlinea, oppure concentrarsi sul contenuto. Il significato. La trama. La punteggiatura. L’ortografia. So solo che, quando ho avuto due soldi da parte per poter portare a termine il mio primo investimento professionale, ho dovuto scegliere tra un 386 e degli strumenti musicali. Un computer o un paio di tastiere per suonare e guadagnarmi da vivere. Di sera sognavo a occhi aperti i fogli bianchi da salvare con i nomi dei capitoli, ma invece poi la mattina guardavo le cose più da vicino. I preventivi erano praticamente identici, i consuntivi sarebbero stati impari. Sono salito sulla macchina e sono andato al solito posto dove tutti quelli come me andavano, e sono tornato indietro con due ferri del mestiere. Ben altri tasti da schiacciare, alcuni bianchi e alcuni neri, ma per il momento poteva andare bene così.