Non sopporto i pettegolezzi.
Mi infastidiscono le persone che si nutrono di essi.
Non esiste male peggiore di quello che nasce da una frase maligna, detta all’orecchio di qualcuno dall’animo curioso e vendicativo.
Perchè poi, quella frase si allarga ad un numero imprecisato di persone.
E, passando di bocca in bocca e di orecchio in orecchio, la verità iniziale subisce una strana deformazione.
Che la porta ad ingigantirsi sempre di più.
Fino ad assumere le sembianze di un oceano sterminato all’orecchio dell’ultima persona della fila.
E se tutto questo non fosse già sufficientemente dannoso nei confronti della persona verso la quale il suddetto pettegolezzo è indirizzato, esiste quella cosa chiamata RICORDO.
Perchè il pettegolezzo, quando fatto bene e secondo tutte le “regole” del caso, resiste al tempo, alle stagioni, ai temporali, ai governi.
E la vittima designata, ovvero la persona oggetto di chiacchiere nulla potrà contro questa terribile macchina (im)perfetta.
Smentire?
Giammai!
E’ il modo migliore per alimentare la fiamma del dubbio (o della certezza, a seconda dei punti di vista).
Dimenticare?
Come se fosse possibile far finta di nulla di fronte a quei bisbigli continui che si attivano al mio passaggio.
Il pettegolezzo resta li, come una cozza attaccata allo scoglio.
Cementato, come fango lasciato ad asciugare.
Ne puoi staccare qualche pezzo.
Ma l’alone, l’ombra del dubbio, resta sempre ben visibile.
Ladra, dicevano di me.
Non era vero.
Ero sempre stata una persona corretta, limpida, anche un pochino ingenua, se vogliamo.
Pronta ad aiutare un’amica in difficoltà.
Peccato che quella che doveva essere un’amica si è rivelata, a conti fatti, come una truffatrice bella e buona.
E’ stata lei, collega d’ufficio compagnona e divertente, a chiedermi se poteva utilizzare il mio pc per inviare una mail di lavoro urgente, mentre aspettava che le venisse sistemato il suo computer in panne.
Ed è sempre stata lei a prelevare una quantità ragguardevole di denaro dai fondi della società per la quale lavoravamo e a depositarli su un conto estero.
Sempre tramite il mio pc (e il mio account, ovviamente).
Salvo poi sparire nel nulla, lasciandomi con una serie inquietante di prove a mio carico.
Licenziata in tronco.
Processata.
18 mesi di carcere.
Tanto mi è costata l’ingenuità.
Ogni santo giorno di prigionia mi sono sentita occhi addosso, ad ogni passo sono stata seguita da pettegolezzi e minacce nemmeno troppo velate.
Senza aver nessun tipo di colpa.
Se non la mia stupidità.
E in 18 mesi ne hai di tempo per pensare, pianificare, studiare una vendetta adatta!
Durante tutto questo tempo ho appreso ce c’è un’altra cosa più forte dei pettegolezzi: il desiderio di vendetta.
Per certi versi i due mali si somigliano.
Una volta che inizi un pettegolezzo o che pianifichi una vendetta, non puoi tornare più indietro.
Tutto il tuo tempo libero è preso dall’ampliare il pettegolezzo all’infinito o a far si che la tua vendetta si compia nel modo desiderato.
Ho studiato, ti ho cercato in lungo e largo.
E, alla fine ti ho trovata.
Ti eri rifugiata in un paesino europeo.
La casa dove vivevi anonima, senza pretese.
L’ideale per passare inosservata.
Ma ti ho rintracciata lo stesso.
Perchè una cosa non ti ha mai abbandonato: la passione per le borse griffate.
E, durante gli anni della nostra “amicizia” mi avevi istruito per bene circa i luoghi nei quali preferivi andare quando eri alla ricerca di una borsa.
Almeno, su quello, non avevi mentito.
E forse è stato quello il tuo unico, piccolo errore.
Mi è bastato appostarmi, fino al tuo arrivo.
E poi è stato facile:
Seguirti, aspettare la notte, entrare nel tuo appartamento, sorprenderti nel sonno.
E poi portarti via, lontano.
E ora sei qui, vicino a me.
Beh, non proprio vicino.
Sei appena sotto di me.
Nella terra appena smossa.
Ti ho calata giù, quando ancora respiravi.
Imbavagliata, legata strettamente.
Poi mi sono fermata, come ipnotizzata, ad osservarti, mentre ti contorcevi ed emettevi quei deboli sospiri che mi hanno fatto pensare, lo confesso, all’ennesimo pettegolezzo sussurrato nell’orecchio.
E forse è stato quel bisbiglio a risvegliarmi.
Il ricordo di ciò che avevi fatto a me tempo prima.
Ora avrei potuto restituirti il favore.
Ho preso una pala e ho iniziato a gettare terra.
Una, due, tre, quattro volte.
Ma non riuscivo a smettere di pensare al passato.
Volevo di più.
Volevo che a coprirti interamente fosse del fango.
Lo stesso che mi avevi gettato contro senza ritegno.
Perchè è questo che meritavi.
Solo fango.
E ho ricominciato a scavare.
Senza fermarmi.
Pensato da