Uk, 2011
129 minuti
Cosa ci fa la trasposizione di un classico come Wuthering Heights, il celebre romanzo di Emily Brontè, in uno spazio come questo? Di sua concezione nulla, se non fosse che lo stupendo adattamento (l'ultimo fino ad oggi, tra cinema e tv) realizzato dalla regista britannica Andrea Arnold, e presentato alla 68a Mostra del Cinema di Venezia, scardina con coraggio le barriere del convenzionale virando il racconto verso i più estatici territori della contemplazione, (ri)formandosi così, attraverso una messa in scena essenziale atta a privilegiare l'aspetto più sensoriale e naturalistico, per ridurre ai minimi termini quello puramente narrativo. La prima mirabile scelta risiede nel prosciugare il racconto originale nonchè (in base all'unico confronto su cui posso fare affidamento), la prima e più famosa trasposizione cinematografica (quella del 1939 diretta da William Wyler) dai vari orpelli costrittivi che solitamente accompagnano i rifacimenti di questi classici, per concentrarsi esclusivamente sul tormentato e complesso rapporto tra Catherine e lo zingaro dalla carnagione scura Heathcliff (attenzione, quest'ultimo è interpretato per la prima volta da un attore di colore, altra scelta ammirevole, ma discutibilmente criticata), scossi dal tumulto di sentimenti contrastanti (e non solo, visto la convulsività della camera a mano che li segue imperterriti) che a prescindere dagli eventi, ne lega comunque i destini. La regista infonde nuova linfa (e originalità) all'opera adottando tutta quella serie di accorgimenti su cui un certo cinema contemporaneo si fonda, riuscendo nel difficile, ma pregevole intento d'incanalare il "classico", nel moderno. Ne esce così un film che gioca tutto sui dettagli, sulla ridotta profondità di campo, sull'esasperato uso del teleobiettivo che (s)focalizza sui corpi, e sui volti dei protagonisti, stringendoli nella perenne morsa di un ormai atipico formato in 4:3 soffocante, e intento a soffocare, come nel cinema sensoriale di Philippe Grandrieux(1), qualsiasi elemento si trovi all'interno di questo perimetro, dove ogni concessione al sentimentalismo di stampo tradizionale viene escluso.
(1) Ci sono parecchie affinità stilistiche con Un Lac (2008), soprattutto nell'illuminazione degli esterni notte e, complessivamente, con il modo di operare del regista francese.
(2) Anche qui emergono delle analogie con quel cinema percettivo più conciliante allo stile di Grandrieux, perchè la sequenza dove Catherine lecca le ferite sulla schiena di Heathcliff, ricorda in maniera esemplare un segmento del greco Mesa sto Dasos. (vedi recensione)