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Xenofobia, quinta colonna del liberismo

Creato il 19 luglio 2015 da Albertocapece

Xenofobia, quinta colonna del liberismoAnna Lombroso per il Simplicissimus

Una nazione come l’Italia nel 2014 ha lasciato casa, terra, parenti, amici, oggetti, ricordi, paesaggi, per scappare dalla guerra e dai suoi effetti. 60 milioni di persone, quanti gli italiani,  hanno cercato rifugio da quella paura per trovarne altre, da quella morte, rischiandone altre, da quella fame, provandone altre. Di fronte a questo la potenza del pensiero  si scontra con l’impotenza dell’azione, delle soluzioni. Come se improvvisamente tutti avessero ragione e tutti avessero delle ragioni per essere legittimati ad aver torto.

La maggior parte delle persone – che quello sono – che lasciano casa, affetti, affrontando rischi tremendi e poi lingue e abitudini sconosciute  in ambienti spesso ostili, proviene da paesi che, secondo la Banca Mondiale,  dal 2009, avevano migliorato le loro condizioni economiche e sociali, tanto che il divario tra il loro Pil e quello dell’Ue si era ridotto. Mentre quelle dell’Occidente sono peggiorate. Non esercitiamo più dunque una grande attrattiva: che non siamo più Bengodi, lo sanno in Siria, Libia, Irak, Ucraina, Nigeria, Somalia, Afghanistan, lo sanno dalla televisione, dalla rete e quando arrivano ce lo dicono in un inglese spesso migliore di quello di Renzi. E spiegano la loro irruzione nel nostro mondo non più opulento, non più pingue e roseo, con la paura dello sterminio di interi popoli, condotto sempre per i soliti motivi che poco hanno a che fare con etnia, religione, usi, molto con interessi, sopraffazione, bottini, avidità, potere e mosso dai soliti imperatori, dai soliti generali, dei soliti predoni con armi spesso prodotte qui, magari in fabbirche dove hanno fortunosamente trovato lavoro parenti scappati prima, quando ancora si partiva per trovar fortuna e si sfuggiva alla fame e alla sete più che dalle bombe. Che poi ci sono guerre più nascoste, più segrete o secretate, quelle che invece delle armi tradizionali, si dichiarano dirottando fiumi, tagliando foreste, impoverendo e affamando popolazione. Ah, ci sono anche quelle condotte in outsourcing in modo che ai signori della guerra non arrivino gli echi degli sapri e nemmeno gli schizzi di sangue, quelle delegate a bande di mercenari o, ancora meglio così si placano le coscienze, nutrendo ostilità antiche, arcaiche inimicizie, così che i selvaggi si ammazzino tra loro, ma con attrezzature generosamente  fornite da paesi tecnologicamente e commercialmente avanzati, che fanno anche così il loro export di democrazia.

Per questo quelli che scappano mossi dalla disperazione, sembra che quella disperazione la brandiscano come una spada contro il nostro disordine costituito, contro quell’equilibrio instabile fatto di semplice ma malferma sopravvivenza, pagata con rinunce recenti a beni, diritti, garanzie, sicurezza, desideri, volontà e libertà, prima tra tutte quella di pensare che sia possibile qualcosa di diverso da quello che stiamo vivendo, qualcosa di meno umiliante di quello che stiamo subendo.

Così pare che abbiamo tutti ragione: loro a scappare e noi ad averne paura.

Ma questo dovrebbe ispirarci a identificare chi ha torto. E non parlo solo dei signori della guerra, che ha le fattezze di una cruenta lotta di classe di chi ha e vuole sempre di più, contro chi ha sempre di meno. E non parlo solo degli impresari della paura, che siedono nei parlamenti sempre meno democraticamente eletti, grazie a leggi che hanno via via limitato partecipazione, libertà d’espressione, favorendo una cerchia oligarchica, che hanno estratto dall’anima nera di molti qualcosa di vergognoso, che veniva celato, bisbigliato: razzismo, xenofobia, fascismo, autoritarismo, e che si esprime, legittimato, sotto forma di risentimento, rancore, violenza. Perché se quelle sono emozioni antiche, arretrate, se sono postumi abietti di patologie passate, è tremendamente moderna, ignobilmente innovativa, la loro legittimazione, sotto forma di “progresso” da difendere, di “civiltà” occidentale da conservare, di “tradizioni” da tutelare, in virtù di una globalizzazione che funziona solo per i ricchi contro i poveri, in modo che possano trovare sempre aperte le porte del casinò per giocare d’azzardo con le nostre vite, il nostro futuro, le nostre speranze.

Parlo di chi ha fatto proselitismo della teocrazia del mercato, della religione del profitto, delle leggi della concorrenza e della competitività, secondo le quali bisogna essere ambiziosi, furbi, cinici, bisogna fare della spregiudicatezza senza scrupoli la proprio qualità, che tanto se non lo fai tu lo fa un altro, che comunque se speculi sui clandestini, alla fine ci mangiate tutti.

Così pare che abbiamo tutti torto: sono labili e sottili le differenze tra imprenditori del laborioso Veneto o dell’operosa Emilia, che hanno per anni tenuto nascosti nei capannoni immigrati irregolari, che hanno fatto salire sulle impalcature manovali senza nessuna protezione, e i dinamici cooperatori di Roma. E sono labili e sottili le differenze tra chi ha affidato figli, anziani, malati a badanti straniere, tra chi ha mandato avanti attività, dalla raccolta dei pomodori alla coltivazione del pregiato radicchio, dalla fabbrica del film interpretato da Abatantuono, alle aziende agricole o alle cave, che però adesso, coperto il fabbisogno, non ne possono più dell’invasione, e quelli si sentono potenzialmente espropriati di diritti, di stato sociale, di prerogative, di assegnazione di case e posti in asilo, come se parlassimo di beni pesati col bilancino, che se si dà a uno si toglie all’altro e non debbano invece essere oggetto di battaglie civili per l’uguaglianza e la solidarietà in modo che tutti abbiano, tutti possano.

Lo sono meno invece quelle tra periferie degradate – costrette a incrementare il loro disagio perché è là che vengono confinati poveracci più poveracci, aspiranti rifugiati annessi a forza a rom e sinti, clandestini pigiati in palazzoni abbandonati insieme a trasgressori nostrani, brutti, sporchi e cattivi di qui stipati con brutti, sporchi e  cattivi venuti da fuori, perché è là che si consuma il fallimento di città strozzate da vincoli sovranazionali e dai tentacoli della corruzione, è là che non ci sono i soldi o se ci sono vengono ingoiati dal moto perpetuo del malaffare, se Roma ha più di 22 miliardi di euro di deficit , se. Parma ha un buco di bilancio di 850 milioni, se Napoli è in dissesto, se sono 180 i comuni italiani commissariati per fallimento economico – e le cittadine del mio Veneto che insorgono contro il pericolo nero, giallo, contro l’invasione dei barbari, che portano sporcizia, malattie, decadimento. Cittadine che hanno votato Lega, nelle quali la parrocchia è ancora un centro vivo di socialità, nelle quali si fa molto volontariato, più che in altre regioni, soggetti letterari e  cinematografici tutti imperniati su un’indole all’ipocrisia, al perbenismo, a un rispetto delle convenzioni solo apparente, mentre nelle case, nei confessionali, ma anche nelle fabbriche, si trasgredisce e si pecca. Cittadine nella quali, infatti, piccoli e industriosi imprenditori sono stati capaci di trasferire armi e bagagli, macchine e attività oltre confine, magari nel mese di agosto, durante le ferie obbligate dei dipendenti. Perché il Terzo Mondo è bello e profittevole se resta là e non cerca di entrare da noi.

Ma anche loro avrebbero ragione, almeno secondo Ilvo Diamanti, perché rappresentano  “il disagio nei confronti dello “straniero”. L’inquietudine prodotta dalla globalizzazione, di cui l’immigrazione è un riflesso. Tra i più visibili e significativi: perché impatta sul nostro mondo, sulla nostra vita quotidiana”. Omette generosamente le colpe di chi quel disagio lo genera partecipando anche solo da vivandiere, da attendente a quelle guerre, le responsabilità di chi pur implorando la collaborazione europea, non ha mai trattato legittime liberatorie per un paese che subisce una pressione così potente, men che meno i torti di chi sa esercitare solo negligenza, inadeguatezza, indifferenza, incompetenza fino alla crudeltà. E sopravvaluta la natura del malessere (ne ho già parlato qui https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/06/09/il-valzer-della-brava-gente/ ), che si sa che quartieri privilegiati, benestanti, “civili”, sono per ora solo lambiti dalla piaga contemporanea, sfiorati della bruttura della disperazione, che sono in grado di proteggersi, che hanno un più elevato potere contrattuale che a Lampedusa,  per esigere doverosi trasferimenti, necessari confinamenti, opportune rimozioni. Ma che comunque esiste ed è determinato da quel senso di perdita che infatti si sente di più dove più si è avuto, da quella percezione velenosa di aver dovuto cedere privilegi, quelli di un benessere, conquistato, ereditato, pagato, non sempre a fronte dei dati sull’evasione fiscale, considerato inalienabile e intoccabile e minacciato, insidiato.

Loro sì hanno torto. A minarlo non sono le orde di barbari “col telefonino”. Non sono gli “altri”. Non sono i diversi. Non sono quelli che fino ad oggi sono stati sotto di noi. Come al solito sono invece quelli cui abbiamo permesso di stare sopra di noi.


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