Xenosophia

Creato il 08 aprile 2011 da Gadilu

Mi dispiace molto non aver preso appunti, ieri sera, durante la conferenza che Massimo Cacciari ha tenuto a Bolzano nell’ambito della manifestazione Philosophen im Theater. Mi dispiace perché il filosofo (definizione assolutamente non usurpata) veneziano è riuscito a fornire un’argomentazione al contempo approfondita, stringente e chiarissima su un nodo concettuale di centrale importanza: la nostra relazione conoscitiva con l’estraneo (traduco così il termine “xenosophia”). Devo per questo limitarmi ad alcuni appunti postumi, ovviamente senza l’ambizione di restituire quanto Cacciari ha detto, ma nella speranza di cogliere l’essenza del suo messaggio dal mio punto di vista.

La prima cosa da mettere a fuoco è la relazione intrinseca, cioè costitutiva, del logos filosofico con il xenos, l’elemento estraneo. Configurandosi come un tendere infinito (e dunque come philein) alla conoscenza dell’elemento estraneo, la filosofia acquista una dimensione compiutamente autotrasparente (ma vorrei dire di estrema onestà) in quanto progetto non totalizzante. L’estraneo è infatti ciò che non può mai essere esaurito nel suo senso (il differente) e con ciò il motore stesso di ogni impresa conoscitiva. Mi ero chiesto (e provocatoriamente poi ho anche chiesto a Cacciari) se con ciò non venisse in luce un tratto fallimentare del discorso filosofico, una sorta di arrendevolezza del suo progetto. Ma molto opportunamente lui ha ribattuto che è proprio grazie all’apertura dell’approssimazione infinita, vale a dire con l’esperienza di un limite di ogni nostra indagine conoscitiva, che la filosofia può darsi come migliore antitodo a un atteggiamento di superbia concettuale della quale cadono vittima altre discipline non filosoficamente avvertite. Anche la supposta identità tra soggetto e oggetto propria dell’autocoscienza, così Cacciari, non riesce mai a togliere la differenza tra quei termini. Stranieri a noi stessi: lungi dall’esprimere una condizione di scacco, all’uomo si schiude in questo modo la propria dimensione estatica che trova conferma nell’impossibilità d’interpretare persino la relazione logica del principio d’identità (A = A) come una mera tautologia priva d’esperienza (di sofferta esperienza). E dunque al contrario: noi saremo tanto più noi stessi quanto più entreremo in relazione con altro, con gli altri e alla fine con l’altro par excellence: Dio. Condizione certamente rischiosa, ma è proprio nell’esposizione al rischio, al pericolo portato (anche) dall’elemento straniero che, citando Hölderlin, cresce ciò che salva (Nah ist / Und schwer zu fassen der Gott. / Wo aber Gefahr ist, wächst Das Rettende auch).

La consapevolezza di questo rischio e della pericolosità dello xenos recide di netto la possibilità che la xenosophia possa venire interpretata come una ricetta di moralistico incitamento ad amare l’estraneo e lo straniero per essere “buoni” (e non a caso: l’accusa di “buonismo” nei confronti di chi dichiara di non voler aggredire gli stranieri è la facile arma in mano ai razzisti). Qui Cacciari è stato molto esplicito: la filosofia, la xenosophia, non corrisponde affatto al semplice contrario della xenofobia, non rappresenta il naufragio nell’amore sentimentale (e vuoto) ignaro dei rischi connaturati a ogni rapporto con l’altro: descrive semplicemente il movimento della nostra esperienza (di ogni in-der-Welt-sein) e ne reclama dialetticamente la consapevolezza alla radice di ogni possibilità concepita in quanto tale.

Alla fine una serie di equazioni (da intendere forse come spiegazioni reciproche, forse come accrescimenti progressivi). La filosofia si configura come xenosophia nel tendere infinito a un sapere che si dà (non semplicemente “è”) nella ricerca dell’ethos (cioè dell’abitare su questa terra). Etica senza ricette predefinite, ovviamente, non prescrittiva, ma come continua opera di mediazione dialettica (e polemica, pólemos, relazione irriducibile) tra il proprio e l’estraneo all’interno di una scena di senso di volta in volta da conquistare.



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