Lo Xinjiang è una estesa provincia nella Cina nord-occidentale, popolata in maggioranza (60% circa) da minoranze etniche di religione musulmana, di cui il gruppo prevalente è quello uiguro. Le relazioni tra la regione e la Repubblica Popolare Cinese sono state sempre piuttosto turbolente e negli ultimi mesi gli incidenti in Xinjiang hanno popolato le pagine dei giornali di tutto il mondo: il violentissimo attacco del 3 Marzo, che ha visto un gruppo separatista uiguro accoltellare a morte 29 persone e ferirne più di 130 in una stazione ferroviaria a Kunming1, città nella provincia sud-occidentale dello Yunnan in Cina; e il 22 Maggio 31 persone sono morte e circa 90 sono rimaste ferite a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, a causa di un attentato terroristico2.
Gli scontri precedenti e le disuguaglianze socio-economiche
Nonostante la Cina si presenti al mondo come uno Stato che riesce a gestire pacificamente ben 55 minoranze etniche nazionali, espressa dalla retorica nazionale dell’ “unica grande famiglia” (yi jiazu) e delle “nazionalità sorelle” (xiongdi minzu)3, le relazioni con alcune di esse sono state storicamente piuttosto complicate. In particolare, le relazioni con lo Xinjiang e gli Uiguri sono state segnate negli ultimi decenni da diversi ‘incidenti’: manifestazioni, colluttazioni e veri e propri attacchi terroristici, di cui quello del 22 Maggio è stato solo l’ultimo di ordine cronologico. Alcuni di questi sono stati particolarmente significativi: in particolare, l’“incidente di Ghulja”, avvenuto nel Febbraio del 1997, in cui la polizia cinese soppresse nel sangue le manifestazioni uigure contro alcune imposizioni cinesi sulle pratiche religiose, e le rivolte a Urumqi nel 2009, in cui più di 100 persone tra Han e Uiguri morirono, mostrano chiaramente come ci sia un forte dissenso in Xinjiang rispetto al governo cinese4.
Due sono i punti principali delle contestazioni in Xinjiang. Il primo è il tentativo del governo cinese di affievolire la cultura, la lingua, le tradizioni e la religione degli Uiguri. Il cinese sta infatti progressivamente sostituendo l’uiguro come unica lingua d’istruzione in tutti i cicli di formazione, dalle elementari all’università e pratiche che restringono la libertà religiosa sono sempre più diffuse: ad esempio, lo studio del Corano è possibile solo in scuole governative, i dipendenti pubblici non possono indossare abiti che li identifichino come musulmani né rispettare il digiuno durante il Ramadan, e l’ingresso alle Moschee e altri luoghi di culto è limitato ai maggiorenni5.
Il secondo sono le disuguaglianze socio-economiche tra Han e Uiguri. Le politiche di ‘apertura verso l’Ovest’ degli inizi anni ’90, che dovevano portare a un equilibrio nella popolazione tra etnie maggioritaria e minoritarie, sebbene abbiano portato ad un maggiore sviluppo delle province dell’estremo Occidente cinese, sembrano aver fallito nel compito di armonizzare la popolazione. Infatti, gli Han risiedono principalmente nel più ricco nord della provincia, dove hanno spesso accesso a una migliore educazione, migliori possibilità economiche, migliori network professionali e quindi, in genere, lavori più redditizi nel settore terziario urbano rispetto ai loro corrispettivi Uiguri. La maggior parte della popolazione Uigura invece si trova nelle zone rurali del sud, più povere, occupata in lavori nel settore agricolo e industriale. E’ significativo che i gap tra zone rurali e zone urbane e quello tra i redditi degli Han e quelli degli Uiguri si siano entrambi allargati sostanzialmente negli ultimi vent’anni6.
Tenendo in considerazione tutti questi fattori, molti studiosi delle politiche contemporanee cinesi in materia di minoranze etniche hanno utilizzato il concetto di “colonialismo interno” per spiegare la situazione particolare dello Xinjiang e le tensioni con lo Stato cinese.
Il colonialismo interno
L’idea del colonialismo interno prevede che rapporti di dominio politico, economico, sociale e culturale tipici del colonialismo si possano instaurare anche all’interno dei confini di un Paese. Sviluppata da alcuni teorici marxisti di inizio XX secolo (in particolare Lenin e Gramsci per citare i più importanti), ebbe il suo maggior successo nella seconda metà del secolo, quando venne usata per analizzare le situazioni politico-economiche di numerosi Paesi tra cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia, il Brasile e il Sud Africa7.
Molti studiosi – tra cui si ricorda in particolare Goodman8 e Sautman9 – si sono confrontati con l’idea che la Cina sia in realtà un impero coloniale, con il governo cinese e la popolazione Han nel ruolo di colonizzatori e le minoranze etniche – in particolare nelle regioni autonome, ma non solo – come colonizzati.
Sotto un certo profilo, il colonialismo interno è uno strumento analitico utile per comprendere la situazione in Xinjiang. In particolare, tre sono i motivi per cui si potrebbe vedere lo Xinjiang come una colonia della Repubblica Popolare Cinese e trovare quindi così una ragione alle tendenze separatiste che caratterizzano parte della popolazione uigura.
Primo, lo Xinjiang è stato annesso alla Cina militarmente. La prima conquista risale all’epoca Qing (1644-1911) e da allora, a parte una breve esperienza da Stato autonomo negli anni ’30 e ’40, è stato sempre sotto il controllo cinese.
Secondo, come già spiegato precedentemente, la maggior parte della popolazione dello Xinjiang è culturalmente molto differente dai cinesi Han, dato che parlano lingue di origine altaica e praticano la religione musulmana.
Terzo, c’è una divisione etnica del lavoro e una serie di disuguaglianze sociali ed economiche tra Han e Uiguri.
Tuttavia su piani politici ed economici, la definizione di colonialismo interno mal si adatta alla situazione dello Xinjiang. Secondo la definizione di Williams10, ci devono essere diversi fattori economici come un monopolio di Stato sul commercio e la finanza, uno sfruttamento considerevole delle attività produttive e una mancanza di servizi nella regione. Ciò non accade in Xinjiang, una regione che viene sostenuta finanziariamente da Pechino, con un’economia in crescita che è andata a beneficio dei propri abitanti e in cui i controlli del ‘centro’ su traffici commerciali e finanza non sono più forti che in altre parti della Cina11.
Anche l’altra principale definizione usata per il colonialismo interno, prodotta da Gonzales-Casanova12, mal rappresenta la situazione dello Xinjiang. La definizione di Gonzales-Casanova si differenzia da quella di Williams per il suo approccio più politico: tra i criteri presi per considerare una regione una colonia interna ci sono la mancanza di potere decisionale nel governo centrale, la mancanza di un governo regionale e un’attiva discriminazione razziale da parte del ‘centro’. Anche questi parametri però non si adattano alla situazione dello Xinjiang. Infatti, lo Xinjiang non solo ha un proprio governo regionale, ma è una regione autonoma, che sebbene non goda delle stesse autonomie di Hong Kong, comunque ha un certo grado di libertà legislativa; le minoranze etniche sono tutte rappresentate nell’Assemblea Nazionale Popolare (il 10-15% dei membri è proveniente da una minoranza nazionale)13; inoltre, nonostante gli Uiguri lamentino una scarsa attenzione alla cultura e alla lingua locale, è difficile parlare di persecuzione dello Stato quando le leggi cinesi non solo garantiscono l’uguaglianza tra cittadini di etnia maggioritaria e minoritaria, ma concedono alle minoranze diritti – come posti riservati nelle università e la possibilità di avere un secondo o un terzo figlio – che sono preclusi alla maggioranza Han.
La prospettiva degli Uiguri e le politiche di integrazione
Nonostante molti politologi e accademici esagerino la situazione dello Xinjiang definendola di tipo coloniale, i rapporti tra Stato e Xinjiang e tra Han e Uiguri sono sicuramente complicati e le politiche di ‘integrazione’sono spesso state la causa di tali complicanze.
In particolare, alcune politiche hanno rafforzato l’identità etnico-culturale degli uiguri, mettendola in contrapposizione aperta con quella Han: tra queste hanno avuto particolare importanza le migrazioni di massa degli Han in Xinjiang14, e l’obbligo di scegliere un’etnia da scrivere sui documenti d’identità15. Inoltre, le disuguaglianze sociali ed economiche tra Han e Uiguri hanno portato il conflitto su livello etnico.
Benché il movimento separatista – caratterizzato sin dall’inizio degli anni ’90 da atti di violenza e terrorismo – non sia appoggiato che da una piccola porzione della popolazione locale, la sua sola esistenza è sintomo di un profondo e radicato disagio.
La soluzione potrebbe essere però più facile di quello che sembra. Sebbene la Cina non concederà mai l’indipendenza allo Xinjiang – e probabilmente a nessuna delle sue province – giacché l’idea va a intaccare profondamente l’idea di unità nazionale che la Cina ha costruito nel corso di secoli, migliorare le politiche sulle minoranze etniche potrebbe avere ottimi risultati ottenuti con uno sforzo relativamente scarso. Un saggio di Joanne Smith16 dimostra infatti efficacemente come, nel corso della turbolente storia recente della Cina, l’opinione degli Uiguri verso la Repubblica Popolare sia cambiata radicalmente a seconda del momento storico, seguendo l’andamento delle vicende e delle politiche in Xinjiang. Un sistema di migliore governance, con una maggiore apertura ai processi decisionali, alla promozione di maggiori opportunità economiche e sociali per le minoranze e un maggior riconoscimento della diversità linguistica e culturale sarebbe quindi di enorme beneficio sia per il governo centrale cinese che per la popolazione di etnia minoritaria.
Bibliografia
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Smith J., Four Generations of Uyghurs: The Shift towards Ethno-political Ideologies among Xinjiang’s Youth, Inner Asia, Vol. 2, No. 2, pp. 195–224, 2000
Williams S., Internal Colonialism, Core-Periphery Contrasts and Devolution: An Integrative Comment, Areas, Vol. 9, No. 4, pp. 272-278, 1977