Autore de Il Peso Della Grazia (2012, Einaudi), collaboratore per le collane Nichel e Indi della casa editrice Minimun Fax, e traduttore di Charles Bukowski e David Foster Wallace, Christian Raimo, in una “lezione” organizzata nell’ambito della presente edizione del RIFF, racconta al pubblico di lettori della Biblioteca Rispoli della magica arte del raccontare storie e dell’intricato e affascinante passaggio dalla scrittura narrativa alla sceneggiatura; e ricorre all’ “aiuto” di altri affabulatori che hanno esplorato la realtà fino a coglierne l’essenza, il guizzo, per iniettarlo nelle storie e dar loro Vita.
Negli ultimi anni siamo diventati sempre più capaci di raccontare storie, grazie anche alle nuove forme di espressione, le piattaforme social, la tecnologia digitale; in realtà questa capacità di dare un senso ad una storia, di trovare un filo conduttore agli eventi che ci accadono quotidianamente e di drammatizzarli, l’abbiamo sempre avuta; David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore della Hollywood degli anni Ottanta e Novanta, Premio Pulitzer per l’opera teatrale Glengarry Glen Ross, da lui adattata per l’omonimo film di James Foley (Americani, nella versione italiana) nel suo saggio Tre Usi Del Coltello (Three Uses Of The Knife, 1996) ci dice proprio che il cervello umano non è adatto per la casualità; qualora cercassimo di riprodurre sequenze casuali, non ci riusciremmo poiché cerchiamo sempre di trovare un legame tra le cose che accadono, un senso, un filo conduttore.
E Raimo ricorre alla vita quotidiana con un esempio all’apparenza semplice ma che in realtà innesca proprio questo meccanismo di cui Mamet parla: quando una coppia di nostri amici si separa non facciamo altro che “ri-leggere” la loro storia cercando un filo logico che abbia portato alla rottura; facciamo altrettanto qualora i due si rimettano insieme; non troviamo mai-prosegue Raimo-elementi di conflitto, ma sempre un processo che abbia un senso.
E dopo averci letto le parole di Mamet, avidamente e tutte d’un fiato, Raimo ci prende per mano e ci fa fare un passo avanti: siamo raccontatori di storie per nostra natura, perché cerchiamo continuamente, consapevolmente oppure no, di reinterpretarle; e lo facciamo sempre, dallo status di facebook ad una campagna elettorale. Come sostiene lo scrittore e ricercatore francese Christian Salmon, siamo immersi in un mondo di story telling. E Raimo pone una questione: come si possono mettere in piedi storie con un valore artistico? Se chi racconta storie non fa pubblicità né comunicazione, ma Arte, qual è la differenza in termini di linguaggio tra uno spot elettorale e un cortometraggio?
Gabriele Giannantoni, uno dei maggiori studiosi della filosofia antica, autore di Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone (Bibliopolis,2005) mette a confronto le divergenze tra Socrate e i sofisti e le rispettive idee diverse di verità: se il primo sostiene che il pensiero di due logos cercano una convergenza, pur senza mai incrociarsi, attraverso la brachilogia (il discorso conciso), la maieutica (la ricerca della conoscenza autonoma) e l’ironia, i secondi ricorrevano agli ampi discorsi della macrologia, alla retorica, che vuole imporre la propria verità sull’altro. Ed ecco un altro piccolo passo: lo story-teller artistico (come un moderno Socrate) cerca la verità.
Già, la verità. Ma quale verità? Come trasmettere questo effetto di verità? Dimensione tecnica a parte, nella trasposizione da romanzo a film si deve fare quello che Raimo chiama “esperienza della verità.” E inizia con un esempio molto personale.
Aveva intervistato Claudio Caligari (regista di Amore Tossico,1983 L’Odore Della Notte, 1998 e dell’imminente Non Essere Cattivo) e involontariamente non aveva fermato la registrazione dopo l’intervista. La registrazione era avvenuta tramite il telefono cellulare, pertanto quando si accorge della distrazione (9 ore dopo), oltre all’intervista può ascoltare qualche ora della sua vita quotidiana vissuta. “Quell’elemento di verità mi dava una sensazione di spiazzamento, di perturbamento”, quasi un fastidio.
Ma non siamo ancora arrivati al punto. Raimo tiene il pubblico di lettori/spettatori/ascoltatori e sicuramente aspiranti affabulatori incollati sulla sedia e si interroga: per produrre l’effetto di verità al cinema dobbiamo creare le condizioni necessarie che facciano scattare quell’elemento, che permeerà di verità l’intera opera.
Per farci comprendere a pieno il significato delle sue parole tira in ballo il regista John Cassevetes e gli attori Gena Rowlands e Peter Falk da lui diretti in A woman under influence (Una Moglie, 1975); Mabel/Gena Rowlands è una donna molto fragile che a causa dei suoi comportamenti che potrebbero rivelarsi pericolosi, viene portata in un ospedale psichiatrico; Mabel ha tre figli, che devono necessariamente separarsi dalla madre. La sera che il loro padre (Peter Falk) decide di portarla in ospedale i tre bambini vengono presi dal padre e portati in camera, per evitare loro il trauma del distacco. I bambini escono dalla stanza per aggrapparsi alle gambe della madre e impedire che lei vada via; il padre li afferra nuovamente e li porta in camera, ma i bambini tornano nuovamente dalla madre. Questa scena è stata girata ininterrottamente: è finzione, ma la stanchezza del personaggio Peter Falk, che ha preso per due volte i bambini in braccio e li ha portati in camera è vera, così come vero e autentico è lo strazio dei bambini stessi, che per due volte sono stati costretti in camera e subito dopo sono corsi dalla madre; talmente veri che lo spettatore sa che è impossibile che il padre possa una terza volta prendere in braccio i figli e portarli nuovamente in camera.
Come trasmettiamo la verità attraverso le immagini? Se le parole di un romanzo riescono ad evocare immagini, come fa il regista a fare quello che lo scrittore e saggista Donald Barthelme suggerisce e cioè “pensare delle strutture narrative che sorprendano chi le sta leggendo”? Il nostro cervello non lavora attraverso una memoria visiva e quando costruisce le scene, un regista è portato a lavorare sulla struttura e non sulle forme. Perdendoci nella lettura di The School (1974) di Barthelme abbiamo un esempio di come un semplice racconto possa evocare all’infinito immagini e storie.
Il fatto è che tutti abbiamo bisogno di storie: quando siamo bambini e chiediamo continuamente “perché?” non è la risposta al perché a soddisfarci, perché subito dopo continuiamo a chiedere “perché?perchè?” a catena, in realtà non vogliamo spiegazioni razionali ma storie. Ed è il bisogno di storie che compensa il bisogno di dare una risposta ai grandi misteri e l’immaginazione in questo arriva dove la spiegazione razionale non basta. Ecco perché le sono tracce narrative sono ovunque: e in manifestazioni molto diverse, nei film, al carnevale di Rio, in un rito tribale, addirittura nello scandalo Watergate, citando in ultimo William Turner, autore de Antropologia della Performance e salutandoci dopo un’ora e mezza intensa e appassionante: bella storia!
Anna Quaranta