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Fosca. Con quale senso ho saputo che si parlasse proprio di me. C'è il motore, c'è la striscia calda del parabrezza che porta il sole dalle nuvole al grembo, c'è la lisca di legno che nuota con dolore nel dito se tocco il volante, c'è il succo dei platani, fuori, e dei pelargoni. Che non so come sia ma c'è come potrebbe essere un colore, c'è e si sparge dal bagagliaio ai sedili.
Fosca. Se Baldo non avesse corso, se non avesse taciuto, se non si fosse fermato proprio a un passo dalla mia bocca, se non avesse avuto paura, se il motore non fosse stato, se non fosse stato il sole, il volante le schegge i tigli e il geranio, se non fossero state la macchina e l'aria e il mattino, i seni rappresi le viscere già molli, se non fosse stata una sola di queste cose forse non l'avrei lasciato entrare. O avrei atteso una parola che sarebbe stata per forza detta male per il troppo tempo in cui nessuno ha visto l'altra, dato che molte cose funzionano come per il corpo, così meno si esercitano i pensieri particolari e comuni fra due spiriti più alla ripresa le cose appaiono povere d'immaginazione e penose oppure bellissime, ma in modo artificiale, sullo stesso meccanismo delle dighe o delle esondazioni.
Ma Baldo non ha chiamato il mio nome. Ha colto la misura del silenzio, il mio silenzio che significava permesso, ed è entrato con ancora il bicchiere in mano e la piccola folla di amici che non ho capito cosa abbiano detto mentre ci siamo allontanati.
Dunque, dopo aver abbandonato il bar, ha trovato un altro lavoro. Non sa dire altro, lo dice prendendosi il collo della camicia e la stoffa gli fascia lo stomaco, che è diventato forse più voluminoso, e palpitante. Ma poi non saprei davvero se sono stata attenta a tutto. Il rumore della macchina alleggerisce. La città è già caduta, o per meglio dire noi siamo saliti dietro una frontiera di pini salati e azzurri, una striscia o un'esibizione di pini come schiere o solitudini lacerate e monumentali, come avviene nei quadri di Carrà. Forse gli amici si chiedevano chi avrebbe pagato il suo bicchiere.
Basta, basta. Si è preso tutta la mia mano e mi lecca un dito con quegli zigomi come una creta umida e gli occhi vellutati chiusi, da vitello. La spina nuota, dolorosamente nuota per il vuoto (nero, dev'essere rosso solo aprendo la bocca), fra indice e labbra e per la verità è adesso, proprio adesso il momento in cui arriva l'amarezza da arricciare il labbro, l'opacità sugli occhi e il grembo denso della rassegnazione.
I pini tremano di libeccio. Tutto questo scopare senza senso, tutto questo amore disperante, come fossi una madonna – non lo sopporto più.
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