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XXI Med Film Festival: Mountain di Yaelle Kayam (Concorso Ufficiale)

Creato il 09 novembre 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma
Mountain
  • Anno: 2036
  • Durata: 83'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Danimarca, Israele
  • Regia: Yaelle Kayam

“L’angolo dei vivi”, in cui Tzvia, una giovane donna, abita con il marito, uomo ultrareligioso, e tre figlie piccole, è circondato da una distesa di morti (un cimitero che la sua famiglia costudisce), che, nonostante la quotidiana vicinanza, rievoca senza sosta un incombente senso del tragico a cui, in ultima analisi, si deve fatalmente rendere conto. Yaelle Kayam, giovane regista israeliana, è abilissima nel mettere in scena il ménage famigliare della protagonista, che, ormai sussunta dal ruolo di madre e moglie, ha smarrito la propria femminilità, essendosi ridotta a mera faccendiera domestica, tutta dedita allo svolgimento delle mansioni giornaliere. L’originaria bellezza è sfiorita, il corpo è appesantito, le sue principali attività, oltre all’accudimento della casa, sono fumare e ingurgitare qualunque cosa le passi sotto il naso, e il marito, ormai esclusivamente dedito alle ossessive funzione religiose e alla maniacale educazione delle figlie, la trascura sessualmente, e risultano, dunque, davvero mirabili alcune sequenze in cui Kayam restituisce perfettamente quell’insopportabile senso di pesantezza che si respira nelle coppie in cui l’iniziale passione viene sostituita da una quotidianità scialba, meschina, fatta di gesti ripetuti, senza più alcun slancio emotivo autentico. Ma, ad un tratto, qualcosa irrompe nelle monotona vita di Tzvia, come se tutta la vitalità repressa eruttasse, incontenibile, malgrado l’insano e ostinato tentativo di soffocarla. Dapprima l’indizio visivo che ci viene fornito è l’intrusione di un topolino nella casa che provoca un moto di disgusto della protagonista, come se assistessimo, per dirla con i lacaniani (con i quali mi scuso per l’appropriazione indebita), all’irruzione di un significante che marchia e che inaugura l’inizio di un disturbo psicologico che connoterà le successive azioni intraprese da Tvzia; che, in seguito, per caso una notte assisterà, incredula, agli svariati amplessi amorosi consumati all’ingresso del cimitero, in cui si è installato un giro di prostituzione, con relativi protettori a monitorare il via vai dei clienti.

Da quel momento la donna smetterà di ‘essere in malafede’, nel senso sartriano dell’espressione, e comincerà a esplorare di nuovo, mossa da un reale intento di fare chiarezza dentro di sé, quei territori emotivi da tempo disertati. È a questo punto che quel senso di morte di cui si diceva sopra fa la propria comparsa, annunciato dai bellissimi versi della poetessa Zelda Schneersohn Mishkovsky che, con poche e calibratissime parole, rende conto di come la fine incomba molto di più di quanto comunemente pensiamo, tallonandoci giorno dopo giorno, quasi fosse una fedele amica che non cessa di pedinare i nostri passi. Il dilemma si abbatte nella vita di Tvzia che vedrà con chiarezza, ma anche con angoscia (anche questa sempre sartriana), aprirsi davanti a sé delle possibilità che dovrà, con la propria scelta, attualizzare, concretizzare. L’epilogo, che non sveliamo,  è volutamente sospeso (anche se alcuni elementi fanno presagire quale sarà l’esito) e convoca fortemente lo spettatore a farsi interprete, attraverso un intenso processo di immedesimazione, dello sviluppo degli eventi. Da una parte si prospetterebbe un finale tragico per eccellenza, nella misura in cui verrebbe rievocata la furia che accecò Medea dopo il tradimento di Giasone, e dall’altro l’accettazione remissiva di un destino fatalmente imposto ab ovo. Il ventaglio di possibilità che si dispiega dinnanzi allo spettatore, spiazzandolo e incuriosendolo, induce un ulteriore e forte senso di partecipazione alle vicende di cui è stato testimone. Il dado è tratto, ed entrambe le opzioni praticabili presagiscono un’esistenza funestata da un moto d’ira ancestrale, rintracciabile solo in un’iconografia mitica in cui al più tenero degli amori si alterna un odio ultra umano, come lo stesso Pier Paolo Pasolini ci faceva notare nell’indimenticabile prologo della sua meravigliosa Medea.

Yaelle Kayam realizza una storia semplice e al tempo stesso potente, che riesce a far risuonare questioni ataviche che, seppur apparentemente occultate da una contemporaneità miseramente tragicomica, tornano sotto forma di un devastante rimosso che scompagina le esili strutture erette per sostenere un fragile ordine simbolico. Terza e ottima visione di questa XXI edizione del Med Film Festival, Mountain è un film delicato, minimale che sa fare segno, relegandole in un fuori campo assoluto, a tutte quelle pulsioni che richiedono una riflessione profonda sulla frammentaria e complessa struttura della natura umana, e che dimostrano, attraverso l’opzionabilità dell’oggetto cui si indirizzano, la loro sostanziale autoreferenzialità. Un trattatello di psicanalisi, dunque, composto attraverso una subliminale evocazione del mito. Da vedere.

Luca Biscontini



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