Abraham Yehoshua scrisse Tre giorni e un bambino nel 1965. Fa parte di quel periodo della sua vita che costituisce, per stessa ammissione dell’autore, un lungo periodo di apprendistato sull’arte del racconto, prima di dedicarsi, dopo il compimento dei quarant’anni, alla scrittura dei romanzi che l’hanno reso uno degli scrittori più acclamati al mondo. Ma, al di là delle categorie, Tre giorni e un bambino è uno dei vertici dell’intera produzione di Yehoshua. Ho sempre sostenuto che tra le qualità migliori dello scrittore israeliano c’è quella di saper descrivere i movimenti minori dei personaggi, lo scorrere delle loro giornate, il loro affaccendarsi in una routine quotidiana che magari non ha nulla di eccezionale. Eppure, nel descrivere queste vite che girano al minimo, riesce sorprendentemente (e come nessun altro al mondo) a dilatare la prospettiva, fino a simbolizzare significati e temi di rilevanza storica, politica, religiosa e culturale. Sono i giorni di passaggio dall’estate all’autunno, e in una Gerusalemme ancora infuocata dalla calura, Ze’ev, un giovane laureando in matematica, si impegna a tenere con sé il figlio della sua ex, Haya. Il piccolo Yali, tre anni, assomiglia come una goccia d’acqua a sua madre, e questa somiglianza ridesta in Ze’ev antichi sentimenti di amore per la donna perduta. Tuttavia, nel suo atteggiamento verso il bambino, c’è una sorta di inspiegabile ostilità, un’avversione che lo spinge ad immaginarne addirittura la morte o ad avere l’impulso di abbandonarlo ai suoi giochi pericolosi e alla febbre che ben presto lo contagia. In questo Yehoshua ancora ventinovenne c’è già tutta l’intensità, la forza poetica e morale, l’eccellenza del grande maestro che conosciamo oggi. In un’intervista rilasciata nel 2010, parlando dei personaggi che animano le sue storie, ha dichiarato: “Andrebbero rispettati come gli esseri umani. Mai ridotti a finzione. Nei miei libri non ce ne sono mai di radicalmente aberranti o incompatibili con me. Non c’è un solo personaggio che io non accetterei di far accomodare nel mio salotto”. In questa affermazione c’è tutta la distanza che separa Yehoshua da una parte rilevante di scrittori contemporanei. Una dichiarazione d’intenti, a quanto pare, mai tradita, neppure nella più remota giovinezza.
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