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Mi è stato chiesto di parlare di una donna
modello
fonte d'ispirazione.
Ho domandato il permesso di modificare la domanda.
A mia nonna ho raccontato che tutto è partito dalla musica. Prima della politica, prima dei testi femministi, prima della consapevolezza. Il primo ascolto. Il modo in cui il mio corpo accolse sguaiate ed acute urla femminili. Inediti contro la mia purezza. Il punto di non ritorno.
Le ho raccontato della musica
per arrivare a quanto di più serio ho scritto
a quanto di più concreto ho modellato.
Ero debole
e per poco non sono crollata
quando con innocenza
mi ha ricordato
che non ho più diciassette anni.
"Anche la nipote dei vicini aveva grandi sogni".
Ero debole
e per poco non sono crollata
pensando alla nipote dei vicini
che aveva grandi sogni
ora sacrificati.
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Tortura.
Una persona pagata per colpirmi la schiena
mentre mia madre elenca i miei fallimenti.
Tortura.
Una persona disposta ad amarmi
solo dopo aver steccato le mie dita con lacci e bacchetti.
Tortura.
Il corpo irrefrenabile.
La vergogna.
Gemiti di dolore prima che la mente abbia elaborato pensiero,
come una macchina.
Tortura.
Dire tutto,
dirlo con chiarezza,
pronunciare parole ardue (che si incastrano in gola),
dire la verità,
la nuda verità;
ascoltarla frantumarsi dopo un instante.
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Mi è stato chiesto di poggiare i piedi al suolo. Nient'altro.
Non andava bene che scavassi la terra con le dita.
Non andava bene che ascoltassi le vibrazioni del cemento contro le piante dei piedi.
Non andava bene che sognassi giardini.
Non andava bene che facessi dell'asfalto la mia metafora.
"Perché non puoi fare la persona normale?"
"Non hai più diciassette anni"
"Perché sei così strana?"
"Ti vedo strana"
"Sei strana"
Non nel senso dato ad intendere in quella scena di Donnie Darko.
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Tortura.
Lo stupore di
mia nonna,
alla quale ho detto la verità.
Lo stupore di mia nonna,
di fronte alla mia discesa nel silenzio.
Lo stupore di mia nonna,
nel vedermi mutare forma.
Lo stupore di mia nonna,
nel riconoscermi animale selvatico.
La mia tana, la mia stanza,
le mie metafore, le mie dita sporche, le mie unghie segnate dalla
terra.
La mia tana, la mia stanza, i miei oggetti, la mia
calligrafia - la suora che spiò il mio quaderno e con fermezza la
dichiarò marchio di una persona instabile, ondivaga,
oscura.
("Perché non puoi fare la persona normale?")
("Scrivere
bene e scrivere male richiede lo stesso sforzo")
I miei temi
stesi sovrappensiero su fogli protocollo a quadretti.
La mia
calligrafia "poco femminile"
"poco
ordinata"
poco contenuta.
I miei temi,
l'abbandono con cui li scrivevo
sul tipo sbagliato di fogli.
Tortura,
la mattinata in cui la dirigente della scuola
si presentò nella mia
classe,
interrompendo la lezione,
per rimarcare il mio errore.
"I temi sono documenti
ufficiali".
Tortura,
la mattina in cui la
dirigente della scuola
si presentò nella mia
classe,
interrompendo la lezione,
per steccarmi le dita con
lacci e bacchetti.
Avevo diciassette anni.
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Nella mia stanza, avevo diciassette anni,
corazze.
Nella
mia stanza, ora,
corazze.
Il punto non è se sia
venuta prima la corazza o il corpo da proteggere.
Il punto è
proteggere il corpo
dalla tortura.
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Il suolo delle mie terre viene fatto parlare
forzatamente.
Il suolo delle mie terre dice che sarò inutile
fino a che non avrò sacrificato
la mia tana, la mia stanza, la mia calligrafia, le mie metafore, i miei sogni, le mie corazze.
Ero debole
quando mia nonna mi ha ricordato
che non ho più diciassette anni.
A diciassette anni la mia anormalità era giustificabile.
"Passerà,
anche l'anormalità le passerà,
fidati che le passerà,
le passerà"
Tortura.
Sentirsi fallimento incarnato
agli occhi di chi ti ha resa la persona che sei,
raccontando storie.
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Le corazze e
il mese in cui fui ombra
nel residuo contaminato della mia stanza.
L'armadio per tana.
La
mia discesa nel silenzio.
Sguaiate urla selvatiche
(femminili).
Il corpo irrefrenabile
la vergogna
dita steccate
braccia steccate
gambe steccate.
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Niente più porte spazio-temporali.
Niente più dischi per corazze.
Niente più dita sulle
clavicole dei ragazzi.
Niente più nebulose sul petto
e fiori sulla schiena.
Niente più nebulose tra le costole
e fiori negli occhi.
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La verità che non ho detto a mia nonna
era troppo difficile da pronunciare.
Cecilia ha sempre cercato di proteggermi
dicendo che ero troppo giovane per vedere certo dolore,
per farlo mio.
Cecilia non capisce le mie corazze,
mi chiede di metterle da parte
perché non ho più diciassette anni.
Ma il punto non è se sia venuta prima la corazza o il corpo da proteggere.
Quand'ero nient'altro che ombra,
quando avevo perso l'uso della parola,
quando vivevo da animale selvatico
(analfabeta, illetterato)
quando avevo dita braccia gambe steccate
quando volevo solo scomparire
quando ero stata spogliata
della mia stanza, la mia calligrafia, le mie metafore, la mia voce
mi trascinai alla fonte delle porte spazio-temporali
e chiesi perdono
per la mia mancanza di contegno,
per l'oscenità,
per le parole ambigue,
per le dita sulle clavicole dei ragazzi,
per le missive impertinenti.
Quand'ero nient'altro che ombra,
mi trascinai alla fonte delle porte spazio-temporali,
perché oltre non c'era nulla.
Non sentivo più le voci che mi ricordavano di continuo tutto ciò che avevo distrutto.
Come una macchina,
infilai le mani nell'oscurità
per estrarne la mia corazza.
Cecilia non capisce le mie corazze.
(immagine: fonte)