Con Youth – La giovinezza, Paolo Sorrentino ritrova il gusto del racconto, della narrazione, della giustapposizione cronologica degli eventi, seppur a modo suo, con tanta rarefazione e tante ellissi. E torna in America, dopo la mezza débacle del fastidioso e poco riuscito This must be the place. Come nel film con Sean Penn, anche in Youth – La giovinezza Sorrentino si perde, è discontinuo, altalenante, disomogeneo, a tratti ispirato e a tratti spiritualmente vacuo. Momenti assolutamente poetici (come la sequenza ambientata a Venezia su un’interminabile passerella in una Piazza San Marco affogata dall’acqua alta o la elegiaca direzione d’orchestra delle mucche al pascolo) si alternano a progressioni piatte come quelle con l’emissario della regina Elisabetta, ingessate in campi e controcampi che smorzano la magniloquente architettura stilistica del regista napoletano.
Sorrentino cerca di ergersi ancora una volta a vate e narratore dei massimi sistemi, la giovinezza e la vecchiaia, il ricordo e l’arte. Il suo film potrebbe apparire come un “naturale” proseguimento de La grande bellezza. Non a caso, nel finale del film del 2013, Jep Gambardella su quello scoglio ricordava il tempo perduto, la beata gioventù, quella “quant’è bella giovinezza che si fugge tutta via…”. In Youth vorrebbe fare lo stesso, ma non riesce ad orientare la sua bussola, mai. Tanto da suscitare in noi la domanda: cosa voleva davvero raccontarci? Certamente l’urgenza (personale) di esorcizzare la paura del futuro, della morte, del panta rei. Senza dubbio, quindi, è una riflessione sul tempo, come giustificato dai tanti corpi nudi sfatti, su tutti quello (del sosia) di Maradona, contrapposti alla fiorente ed esuberante bellezza e sensualità di Miss Universo (Madalina Ghenea). Ma cos’altro?
Youth – La giovinezza è un film che passeggia, proprio come fanno i due protagonisti Fred (Michael Cane) e Mick (Harvey Keitel), che passeggiando cercano se stessi, cercano di ricordare e trovare il perché delle cose. Ecco, Youth è un film in cerca di un senso e in ricerca di un buon finale (che non arriva), proprio come fanno i giovani sceneggiatori che affiancano il personaggio di Keitel. Youth – La giovinezza cerca e ricerca, gira e rimugina, ma non trova nessun approdo concreto o definitivo. “Le emozioni sono sopravvalutate” afferma Michael Cane. Sorrentino, invece, le sottostima, le dimentica, affidandosi a tanti quadri e tanto immobilismo dai quali non scaturisce alcun soffio emozionale, rifugiandosi in tante belle frasi-sentenza che vorrebbero essere “massime” sulla vita e invece suonano come banali parole gettate al vento. È quindi un esito del tutto inaspettato, considerando come La grande bellezza parlasse con le immagini fino a commuoverci.
Insomma, è tutto meno nitido, meno definito, forse più morigerato, e ciò dal contenuto si riverbera anche a livello stilistico e della fotografia (del solito Luca Bigazzi).
In merito agli attori, tutti bravi, ma emerge un certo manierismo camuffato, dove ciascuno suona il proprio strumento meglio che può, trascurando la dialettica d’orchestra. Un po’ impostata Rachel Weisz, tenero e dolente Michael Cane, preciso e sornione Paul Dano. Harvey Keitel fa le scarpe a tutti.
In conclusione, però, vorrei non essere frainteso: Youth – La giovinezza è un bel film, senza dubbio, anche se lacunoso e ombroso in più frangenti. È un buon film che ricerca il rigore estetico e lo splendore complessivo de La grande bellezza, ma tornando coi piedi per terra, alla narrazione cinematografica che Sorrentino sembrava aver sublimato. Youth – La giovinezza è un film di transizione, con l’incompiutezza di quelle opere che ricercano una sintesi e una concertazione dei film passati, con molta probabilità l’anticamera verso un nuovo esito ben più compiuto, proprio come fu per This must be the place all’alba de La grande bellezza.
Vota il post