Fra humor e psicodrammi, Sorrentino dopo l'Oscar giunge all'impasse definitivo della sua cinematografia. Ambientato nella Montagna incantata di Thomas Mann, tantalizza e diverte il pubblico con una (tragi)commedia fatta di troppi dialoghi e metalinguismi sorrentiniani.
YOUTH - LA GIOVINEZZA (2015 P. Sorrentino)
Voto: 6 e mezzo
Youth - La Giovinezza, la grande sega mentale internazionale di
Paolo Sorrentino. Perdonate il francesismo, ma non si poteva spiegarlo in modo migliore. E poi sono sul mio blog e scrivo come mi pare. La trama è già nota sin dalla diffusione di uno dei due trailer, fin troppo narrativo, in circolazione da un mesetto, quindi non mi ci soffermerò più di tanto. Sin da
L'uomo in più (2001), esordio del regista napoletano,
Youth è il settimo lungometraggio in 14 anni. Troppi per essere tutte ciambelle col buco perfetto. A dirla tutta questo film non è neanche una ciambella, ma un pasticcio!
Ricordiamolo, Sorrentino è del '70, ancora relativamente giovane, viene da studi (interrotti) di Economia,
il cinema è il suo mestiere quanto lo sono quello del romanziere e pure dell'intellettuale, che gli piaccia o no questa etichetta. A lui piace essere paragonato a un poeta. Andiamo male, soprattutto se penso che sta realizzando una miniserie intitolata
Il Giovane Papa con
Jude Law. Ha pubblicato quattro romanzi - uno dei quali,
Hanno tutti ragione, arrivò terzo al
Premio Strega, due sono la
sceneggiatura romanzata de
La Grande Bellezza e di quest'ultimo. Il cinema di Sorrentino da quasi sempre 'soffre' di questo eccesso di scrittura romanzesca: aforismi caustici o filosofici messi in bocca ai propri protagonisti. Ciò finisce per permearlo di un'artificiosità portata al limite della sublimazione. La cinematografia di Sorrentino non è definibile se non con il termine
sorrentiniano.
Se si vuole trovare qualcosa di interessante e piacevole nel suo cinema, si deve accettare di andre oltre questa cifra stilistica irrinunciabile, che trova il suo culmine soprattutto in un modo estetizzante di girare i suoi film.
Il problema della cinematografia di Sorrentino è la megalomania, che cominciava a farsi già sentire con prepotenza ne
La Grande Bellezza. Questo suo voler essere elevatissimo e semplice allo stesso tempo. Contentare il pubblico esigente e quello più popolare. Semplice nei temi esistenziali, nel senso che possono essere accettati e digeriti da tutti poiché universalmente condivisi. Per questa ragione è un regista
pop, gira i suoi film quasi come fossero dei lunghissimi videoclip musicali dove quasi mai c'è una canzone in lingua italiana. A proposito di videoclip musicali, vedete in particolare tutto l'incipit de
L'amico di famiglia, ma anche l'incubo di Rachel Weisz in questo film. Strizza da sempre l'occhio al cinema di respiro internazionale e già con
This Must be The Place ci provò, ottenendo risultati tuttavia poco più che mediocri. Qui
si ha l'impressione di guardare ad un nuovo volume de La Grande Bellezza reintepretato in chiave anglosassone, in particolar modo per il pubblico d'oltreoceano. Sorrentino ha sempre sognato Hollywood, non neghiamolo. L'anno scorso ci è andato da vincitore come miglior film straniero. Naturale che abbia voluto riprovarci.
A questo giro ha avuto l'occasione di lavorare con due che probabilmente sono fra i più grandi attori viventi. Grazie a ciò e alla loro simpatia, il film finisce per avere dei
discreti momenti comici che ci danno tregua dai quasi bipolari narcisismi e autocritiche sorrentiniane, per divertirci in quella che in definitiva è una
(tragi)commedia sui generis. Gli amici da una vita
Harvey Keitel, il vecchio regista alle prese col suo ultimo film-testamento, e
Michael Caine compositore e direttore d'orchestra in pensione che non vuole dirigere un concerto per la regina Elisabetta, sono la parte eccellente di
Youth - La Giovinezza. Su questo ci possiamo giurare. Trattando di arte, cinema, musica, morte, bellezza, giovinezza, vecchiaia e di un certo mondo artistico-intellettuale sepolto dalle proprie ceneri, che però come la fenice si rigenera rivive come lo stesso film fa dopo il suo apparente epilogo e durante tutti i titoli di coda,
Youth a suo modo in quei passaggi leggeri ma discontinui è piacevole. Con la premessa fondamentale di dimenticarci che stiamo assistendo ad una gigantesca sega mentale di Paolo Sorrentino. Lo si intuisce che con questo film sta parlando di sé stesso e sta cercando di fare una sorta di auto-psicanalisi.
Le battute di Mick e Fred
sul rubare dai migliori, sul rischio di diventare intellettuali e le trame secondarie dell'attore
Jimmy (
Paul Dano), eterna
vittima del proprio successo, o Brenda (
Jane Fonda), diva hollywoodiana attaccata ai soldi più che alla dignità artistica, sono tutti palesi
giochi metalinguistici riferiti al vissuto di Paolo. Il tutto trova un suo culmine nell'
insopportabile sequenza esplicitamente felliniana in quanto citazione della scena da "
8 e 1/2" con tutte le donne della vita di Guido-Mastroianni. Queste cose le aveva fatte cento volte meglio
Woody Allen in
Harry a Pezzi e altri suoi pseudo omaggi.
Se avesse lasciato decantare la vittoria agli Oscar e avesse trascorso più tempo a buttare giù idee, Sorrentino forse ci avrebbe deliziato con un'opera veramente nuova e diversa... Perché, non so voi, personalmente oltre ad interessarmi poco l'autoanalisi sorrentiniana espressa in un cinema geometricamente accartocciato su sé stesso, autofagocitante e, di nuovo, sulla ricerca dell'inquadratura studiatissima senza mai lasciare vivere un fotogramma, mi sembra oltremodo ridicolo parlare a 45 anni della fase terminale della vita! Ah già, dimenticavo, perché parlando delle stesse cose ci ha vinto l'Oscar. Certo, il posto in cui è stato girato il film è splendido ed è un emblema sia letterariamente che cinematograficamente parlando. Ma non basta. Menzione speciale, del tutto personale e di parte, per
Rachel Weisz e Keitel che non vedevo in ruoli così centrali da moltissimi anni.