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Youth: la vecchiaia al cinema. Il divieto infranto di raccontarla

Creato il 08 giugno 2015 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Cos’altro possiamo aggiungere sul film di Sorrentino rispetto a quanto è  già stato detto?

Forse che ha avuto il coraggio di inoltrarsi nel terreno scivoloso della vecchiaia e di restituircela così com’è, di non tralasciare nessuna ruga, nessun decadimento fisico e psicologico: la memoria che manca, il corpo che tradisce. Ma altri hanno sfidato il tabù prima di lui, piegandolo una volta per sempre. Sono tante le storie di vecchietti, infatti, più o meno vispi, più o meno sofferenti: dallo struggimento di Nebraska e ancor più quello di Amour, agli ultimi due film con Al Pacino, presentati a Venezia l’anno scorso. Passando poi per storie più leggere, come Pranzo di ferragosto, Quartet, Marigold Hotel,  E se vivessimo tutti insieme.

Dopo decenni in cui il tema è stato ignorato, se si pensa al vuoto intercorso dagli anni Cinquanta, da Umberto D. e Il posto delle fragole, interrotto soltanto alla fine del ’90 con Una storia vera  e Svegliati Ned. Quasi mezzo secolo di accantonamento, in cui è vero che si viveva meno e si invecchiava meno a lungo, ma soprattutto si era oltre modo, rispetto ad ora,  spensierati: diciamolo, la terza età, e ancor più la quarta, non sono fotogeniche, deprimono, intristiscono, allontanano. Il nonnino al cinema ha occupato solo ruoli secondari, quando non era addirittura lo stesso protagonista, invecchiato artificiosamente, e spesso molto poco credibile, alla fine della sua vita. Nessuna  insistenza sulle macchie della pelle, su ciò che Philippe Roth, nel suo libro L’umiliazione, ha detto essere la vecchiaia, “non una battaglia, ma un massacro”.

In Youth, Sorrentino non racconta più il passaggio, come quello di Jep Gambardella, che risulta ancora sostenibile, ma proprio il ciclo dell’esistenza che si chiude, e come. L’ultimo giorno di vita, addirittura, è il titolo del film che Mick (Harvey Keitel) sta cercando di scrivere, come testamento della sua arte di acclamato regista.

Potremmo dire, sì, schematizzando un po’, che sono evidenti due modi diametralmente opposti di viverla, la vecchiaia. Mick è preso dalla frenesia del fare, circondato dai ragazzi con cui lavora e con i quali ama stare in una relazione paritaria; Fred (Michael Caine) sceglie di ripiegarsi su di sé, cercando il senso del tramonto nei ricordi passati che gli sfuggono, tranne quello della moglie, tradita un tempo quasi come un diritto, custodita ora  nella fedeltà della memoria.

Youth

È una senilità maschile, la loro, che permette solo di raccontarsi le cose belle; le confidenze hanno tutte un limite non superabile, soprattutto quelle sentimentali, a costo di cambiare discorso, andare fuori tema, come dice Fred a Mick, nel momento in cui non vuole affrontare una situazione che li riguarda entrambi. Per il resto, possono confrontare i capricci delle prostate, scommettere sulle stranezze dei villeggianti, fidarsi dell’amicizia vecchia, anche lei, di sessant’anni, ma le loro solitudini sono affidate ad altri: a Jimmy Tree (Paul Dano), per esempio, giovane attore che li osserva e che, come altri personaggi nella storia, fa da specchio, a riflettere e contenere i drammi personali, e le emozioni, che sono sopravvalutate, a parole, secondo Fred, ma risultano essenziali invece per Mick. Non possono cambiare una comunicazione che li ha accompagnati tutta la vita, forse perché fa più male vedere se stessi e il proprio declino nel compagno di sempre. È un’intimità fatta di abitudini relazionali che non consentono di raccontarsi come si vorrebbe, che privilegiano la battuta, l’ironia, il sottinteso. Perché è meglio parlare  delle gocce quotidiane di pipì, anziché del dolore, quello vero. Di vecchiaia disquisiscono a modo loro in continuazione, quasi si potesse, scherzandoci,  tenerla a bada.

Un’accorata mestizia pervade la loro vacanza, la loro vita, e non si riesce a scrollare, in questa narrazione tutta psicologica, diversa da molte altre sullo stesso argomento, che vogliono denunciarne gli aspetti sociologici, oltre che esistenziali. Mick e Fred sono stati personaggi pubblici e faticano, ora,  a riconoscersi solo come persone. Fred, grande musicista, suona in privato con la cartina di una caramella, dirige le mucche sul prato davanti a lui e gli uccelli, in un’orchestra immaginaria. Gli rimproverano l’estrema apatia, ma la sua accettazione dell’età, invece, è sicuramente più sana delle resistenze di Mick, che cerca di esorcizzarla a tutti i costi. Interroga il passato, Fred, e Mick continua ad essere ostinatamente proiettato verso il suo scampolo di futuro; e mentre il primo, durante la villeggiatura, ricostruire un rapporto amorevole con la figlia, all’amico tocca, negli stessi giorni, prendere atto del suo smacco affettivo, irrimediabile. Fred ha sposato, ma non sappiamo quando, l’intuizione di Jep Gambardella: “La più consistente scoperta che ho fatto pochi giorni dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare”.

Youth

L’indolenza sembra solo di facciata, o l’unico modo possibile per mantenere il contatto con la mente, la psiche, l’anima. Nel ritiro dai riflettori (mentre Mick non può farne a meno), in un silenzio che è ricerca di sé.

“Quanto buon carattere e umorismo ci vogliono per sopportare l’orribile avanzare della vecchiaia”, diceva Freud. E Fred Ballinger sembra possederli entrambi, dietro l’aspetto ombroso; lo dicono i suoi mezzi sorrisi, gli sguardi posati con empatia sulle cose e le persone, l’incedere lento ma consapevole per i sentieri del paesaggio alpino.

Il film di Paolo Sorrentino è stato amato e criticato, anche ferocemente. Goffredo Fofi lo ha definito lagnoso, sentenzioso, banalmente kitsch, inautentico e pieno di fellinate. Non siamo d’accordo, tanto le due figure di anziani, inserite nelle suggestive scenografie sorrentiniane,  restano impresse nella memoria, soprattutto quella interpretata da Michael Caine. L’unico appunto potrebbe essere quello di una materia oggi non più originale, ma è la vita stessa che ripete le sue stagioni, fino all’ultima, diversa per ognuno e nei tratti essenziali tragicamente uguale.

Margherita Fratantonio  



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