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Zadie Smith: Creatività e rifiuto. Stasera a Massenzio

Da Silviapare

Zadie Smith: Creatività e rifiuto. Stasera a MassenzioQuesta sera mi hanno chiesto di parlarvi di "creatività". È una di quelle parole ambigue che piacciono agli organizzatori di eventi letterari, e confesso di averla fissata a lungo senza riuscire a prendere il via. Un'altra parola dello stesso tipo è "identità". Il nostro bisogno di questi vocaboli dev'essere autentico, vista la frequenza con cui li usiamo, eppure ormai si sono consumati, come un vecchio paio di scarpe che lasciano entrare più di quello che tengono fuori.

La parola "creatività" ha avuto un declino particolarmente lungo. Il critico marxista Raymond Williams ne traccia l'involuzione nel suo dizionario della cultura moderna, Nuove parole chiave. Williams racconta che la "creazione" nasce come prerogativa degli dei (come nella massima di Agostino "creatura non potest creare": la creatura creata non può a sua volta creare), e da quella vetta decade, nel XVI secolo, a sinonimo di "falso" o "imitazione". "O sei soltanto", chiede Macbeth, "un pugnale della mente, / Una creazione falsa che nasce dal cervello / Oppresso dalla febbre?". Per gli elisabettiani, tutto ciò che era "naturale" rappresentava la verità. Tutto ciò che era creato dalla mente degli uomini risultava in un certo senso secondario, sospetto. Una leggera macchia di vergogna che durò a lungo, arrivando a sfiorare persino i romantici.

Ai giorni nostri, sostiene Williams, usiamo la parola "creatività" per nascondere a noi stessi il fatto che le arti non sono dominate da innovazione e originalità, bensì dalla "riproduzione ideologica ed egemonica". In altri termini: ci piace pensare che le "arti creative" rappresentino una forma di ribellione contro l'andamento delle cose, mentre il più delle volte non fanno altro che rafforzare lo status quo . La parte più dolorosa arriva alla fine: "La difficoltà sorge quando una parola che un tempo era destinata, e spesso lo è tuttora, a rappresentare un concetto serio ed elevato, diventa convenzionale. [...] Di conseguenza qualunque opera letteraria fasulla o stereotipata può essere chiamata, per convenzione, scrittura creativa, e gli autori di testi pubblicitari possono descriversi ufficialmente come creativi".

Credo che sia proprio in quest'ultimo senso, molto lato, che sento usare più spesso la parola nella mia città adottiva, New York. A una festa una ragazza potrà dirvi, tutta fiera, che lavora nel "branding creativo". L'uomo che ci disinfesta l'appartamento dagli scarafaggi parla di trovare "una soluzione creativa al problema". Il settore marketing di una grande azienda è considerato il suo "centro creativo". Mentre scrivo queste parole, a New York si celebra ufficialmente la "Settimana creativa" ("In cui pubblicità, design e digital media entrano in collisione con le arti"). A Manhattan, quando una persona viene descritta come "creativa", in genere significa che ha trovato un modo particolarmente ingegnoso per vendervi qualcosa.

L'altro posto dove sento spesso questa parola è, prevedibilmente, il numero 58 di West 10th Street, dove insegno in un corso di Scrittura creativa. Lì la parola "creativo" si è trasformata da aggettivo in sostantivo. "Fin dalla più tenera età", scrive una studentessa nella lettera di candidatura, "sapevo che il mio destino era essere una Creativa". Il supplemento domenicale del New York Times tortura regolarmente i miei studenti con articoli esagerati sulla fantastica vita di questa persona, la "Creativa". Abita a Brooklyn, lavora seduta in un caffè con il suo portatile, fa gli orari che vuole e non deve rispondere a nessuno. Non potrei certo negare a un giovane questa comprensibilissima aspirazione (anche se personalmente non ho mai scritto neppure una parola creativa in un caffè), ma a volte mi domando se l'attrattiva principale sia la scrittura creativa in sé o questo stile di vita tanto reclamizzato.

Per creare qualcosa, come sapevano gli dei, occorre una certa audacia. Ma benché i miei studenti siano ottimi lettori, a volte geniali, spesso all'inizio scrivono in modo stranamente esitante. La loro è una scrittura che mira a piacere; una scrittura, in particolare, che cerca di occupare una presunta nicchia nel mercato letterario. Spesso questa nicchia è caratterizzata da quell'altra parola ambigua, "identità".Ho sentito Salman Rushdie dichiarare, poco tempo fa, che il suo consiglio più importante ai giovani scrittori asiatici contemporanei è il seguente: "Non devono esserci frutti tropicali nel titolo. Niente manghi, niente guaiave. Niente del genere. Anche le bestie tropicali sono problematiche. Pavoni eccetera. Lasciate perdere quella roba".

Se i romanzi asiatici sono di moda, questo non significa che dobbiate trasformare la vostra persona in un feticcio. O per dirla in un altro modo: non è creativo permettere alla logica del mercato di penetrarvi nella mente. Uno dei vantaggi del mestiere di scrittore è, o forse era, la sua relativa indipendenza. Al contrario del cinema e della televisione, non occorre soddisfare un comitato né ottenere un'autorizzazione prima di mettersi a scrivere. Ma cosa succede se abbiamo interiorizzato un comitato immaginario? A volte gli studenti sembrano più sintonizzati sulle chiacchiere dei pr dell'editoria che su quanto avviene nella loro mente. Si propongono di scrivere il "Prossimo Grande Romanzo Postcoloniale", un'"Epopea Multigenerazionale", o un "Delicato Dramma Storico Canadese". Non molto tempo fa, al termine di un semestre, uno studente mi ha chiesto: "Come hai scelto il tuo marchio letterario?".

Quasi tutto il tempo che trascorro con gli studenti è occupato dal tentativo di convincerli che la creatività è qualcosa di più che trovare il pubblico perfetto per il prodotto perfetto. A mio parere, un vero Creativo non dovrebbe accontentarsi di soddisfare una domanda preesistente, ma dovrebbe modificare la nostra idea di ciò che desideriamo. Un'opera d'arte forma il proprio indispensabile pubblico, crea un gusto per se stessa. In questo senso, al cuore della creatività si trova un rifiuto. Perché un'opera veramente creativa evita sempre di vedere il mondo come lo vedono gli altri, o come viene generalmente descritto. Rifiuta le opinioni convenzionali e generiche: "rinnova". A volte questo cambiamento di prospettiva forzato crea piacere, e una Creativa deve considerarsi molto fortunata se ciò avviene. Ma deve anche prepararsi alle reazioni più consuete: disagio, ripugnanza, confusione, shock, persino rabbia.

Di rado ciò che è davvero nuovo s'insinua con facilità nello stato di cose esistente. Come minimo provoca un po' di attrito. Eppure trovo difficile coltivare e promuovere negli studenti - soprattutto americani - la disponibilità a rischiare di non piacere. Vengono educati a seguire il principio della domanda e dell'offerta, del rapporto tra intrattenitore e pubblico. Come antidoto, all'inizio di ogni corso, assegno la lettura di Kafka, nella speranza che li renda più audaci. Perché Kafka era un Creativo la cui creatività non si fondava sul bisogno di approvazione. Un uomo per il quale la creatività era di per sé una forma di rifiuto.

Traduzione di Silvia Pareschi © Zadie Smith 2013

[Articolo pubblicato su "La Stampa" del 1° luglio 2013. La versione integrale verrà letta questa sera al Festival delle Letterature di Roma)


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