Zeder (1983)

Creato il 29 ottobre 2011 da Elgraeco @HellGraeco

Ci sono alcuni elementi di questo film che invidio. Da sempre. Coltivo il sogno di diventare uno scrittore da altrettanto tempo, forse qualcosina in meno. Coltivo il sogno di andare a vivere in un loft, godendo del panorama urbano di una città come Bologna, o una simile meta culturale. La città tranquilla, magari svuotata perché l’estate si avvicina. E che la mia ragazza, bellissima, mora e occhi azzurri, mi regali una macchina da scrivere, così, perché mi ama e sa che i miei romanzi, un giorno, avranno il successo che meritano.
Alcune volte, ringrazio di essere vecchio abbastanza da ricordarmi le macchine per scrivere, i nastri, i fogli di carta imbrattati, pieni di correzioni e bianchetto, e l’associazione mentale che voleva un romanzo definirsi tale solo se accolto da un editore. Sembra siano trascorse ere geologiche. Ma il fascino del quotidiano, di una normale giornata italiana, rotta dalla scoperta di un mistero raccapricciante, be’, quello è di Pupi Avati. Del trio, in verità: lui, Antonio Avati e Maurizio Costanzo. Zeder è la controparte de La Casa dalle Finestre che ridono. È l’horror italiano che rende Rimini, una Rimini vista di taglio, senza inquadrare il mare, cassetto dove insabbiare fatti di sangue. Tanto di cappello, ancora un volta, a Pupi Avati, perché Zeder, in alcuni punti, fa paura davvero.
Gabriele Lavia è Stefano e, come dicevo poco più su, potrei essere io. Sulle tracce di una storia intrigante, trama potenziale per il terzo romanzo, “quello buono”. Nei nastri della macchina per scrivere uno studioso o un folle, o entrambe le cose, anni prima, ha battuto poche righe che fanno riferimento ad alcuni terreni, i terreni K. Posti dove, lo sappiamo fin dalle prime battute, i morti tornano indietro.

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Non so adesso, ma Avati in questo film sembra essersi divertito a utilizzare tutti i trucchi del mestiere, sguardi attraverso la telecamera, apparizioni improvvise, sussurri, inseguimenti, tutto il repertorio del thriller, fin quasi alla fine del film, dove raggiunge l’apice, sfociando nell’horror. Poche efferatezze, poco sangue, è sufficiente, a far paura, lo sguardo di colui che, riposando nel terreno Kappa, è ritornato, sghignazzando e sorridendo.
Ancora un volta impostazione classica del giallo, enigma portante sussurrato all’inizio, in un flashback, e riscoperto, nella duplice natura di mistero celato e orrore, dai veri protagonisti della storia: il già citato Stefano e sua moglie Alessandra (Anne Canovas).
Entroterra romagnolo e marchigiano, strade assolate e un maggiolone decappotabile, più una serie di comprimari notevolissimi, nel loro essere provinciali, come sempre nei film di Avati, ma credibili. Per citarne uno, il giovane sacerdote che aiuta e respinge Stefano nelle sue indagini. Lungi dall’essere stereotipo del servo di Dio, si permette di discernere sull’aldilà e sulla vita eterna, vagheggiata e temuta in questi termini: premio partita.
Il premio partita è la ricompensa promessaci dal Signore, la Resurrezione nella carne e nell’anima. Ma il sacerdote è uno coi piedi per terra, l’indagine è pericolosa e coinvolge il tipico personaggio sulfureo, perfetto per casi come questo: uno spretato.

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Lo spretato è, di solito, un sacerdote che ha rinunciato o ha perso i voti. Quando, come in questo caso, il suo status si collega a degli studi esoterici poco in linea con le dottrine della Chiesa, il termine assume da sé connotazioni ambigue e maligne, che vanno a contribuire, come accade, al fascino universale di questa storia, al di là della sua dimensione così consueta, familiare per noi che quei luoghi abbiamo visto coi nostri occhi.
Colonna sonora di Riz Ortolani, simile a una serie di coltellate, chiassosa, ma caratteristica, in breve legata in modo indissolubile a determinate sequenze. Insieme alla spettacolare scelta degli esterni.
Niente di raffinato, in verità, tutto l’intreccio, fotografie in cornice comprese, preparano al set finale, un complesso alberghiero abbandonato mentre era ancora in costruzione, architettura degli anni Settanta, con linee lunghissime e spazi aperti, scalinate, discese che tagliano un’immensa facciata che è solo un’intelaiatura.
Quella struttura, evocativa, sorge su uno dei terreni al centro di questa vicenda, una zona in cui vige un non-tempo e dove, si ipotizza, la vita e la morte non abbiano alcun significato. Lì lo spretato s’è fatto seppellire, vittima/protagonista di un complotto per mantenere il segreto del quale si è disposti a uccidere.

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C’è più di un’incongruenza. La trama è ingenua. Alla fine, è solo la curiosità che porta Stefano a rischiare la vita per far luce sulla vicenda. Nient’altro, infatti, a supporto di questa sua ossessione, che travalica, fino a dimenticare del tutto, le ragioni della scrittura, per diventare solo scusa, motivo per mostrare ciò a cui novanta minuti di film ci hanno preparato: la resurrezione. Cattiva, sadica, sovrannaturale, lontana dalla grazia e da qualsiasi favola ultraterrena. Nessuno zombie risulta vuoto e malvagio come il ritornante di Avati, dotato di sinistra coscienza e occhi malvagi, che passeggia proprio in quella cornice architettonica così incongrua. Di lui, oltre la sinistra risata, riecheggia solo il rumore dei passi.
Menzione d’onore per Anne Canovas, elemento estraneo alla vicenda, coinvolta da Stefano, per amore. Personaggio simpatico, scherzoso, oltre che bellissima donna, che offre ad Avati la possibilità di mostrare, come sempre, la caducità dei sentimenti, vittime di un cinismo sistematico, che non conosce ipocrisie. Mi rendo conto, ripensando ad altri lavori di questo regista, a quanto sia coerente la sua visione, immutata nel corso degli anni. L’amore è sempre innocente e dolce, rappresentato da un’attrice che, con la sola presenza, ne comunica il benessere. Ma è altrettanto fragile, impotente se messo a confronto con l’oscurità, quella cattiva davvero, che ti fa strizzare.
E allora, persino un sorriso di una persona cara, mostra orrore. Tutto quello che occorre.

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