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Sono passati ormai quasi trent'anni da quando uscì Zelig di Woody Allen: era il 1983, l'anno di Scarface di Brian De Palma, di Flashdance di Adrian Lyne, di Silkwood di Mike Nichols; e ancor più di The Meaning Of Life di Terry Gilliam (che, solo due anni dopo, avrebbe dato alla luce l'altro suo capolavoro su una realtà non meno "plastica", Brazil). In tutto questo tempo, il geniale film-documentario di Woody Allen, che non racconta altro che un'idea bizzarra e fantastica, non ha perso grinta o vis comica. Semmai, proprio in Zelig, mi sembra che il barocchismo nevrotico di Woody Allen si stemperi in un circo festoso di idee riuscitissime. D'altra parte, la corrosione della società, pervasiva nell'ometto impacciato e misantropo, ricade tutta sul disagio del "camaleonte", lasciando apparentemente incolumi i suoi (più o meno inconsapevoli) carnefici.
In realtà, Woody Allen va più a fondo: ridiscute il senso del racconto cinematografico tradizionale, attraverso un esperimento di frantumazione della narrativa filmica in un talk-show plenario di mille voci, opinioni e immagini documentarie prive di esito, ancor meno all'identità del protagonista Zelig (lo stesso Woody Allen, non dimentichiamolo, che monta questo gioco di specchi). La struttura prismatica è rafforzata dall'apparente eccezione della dott.ssa Eudora Fletcher (Mia Farrow): unica tra gli esperti interpellati a spiegare a profitto comune il caso singolare, si distingue per l'essere entrata nell'orizzonte vitale e fantastico di Zelig, è vero. Ma, con ciò, l'intera accademia dell'interpretazione (sarcasticamente "capeggiata" dalla Susan Sontag di Against Interpretation) precipita nel gioco delle verità irrisolte e, in fin dei conti, irrilevanti, trasformandosi a sua volta in spettacolo nello spettacolo.
I personaggi di Woody Allen oscillano tra granitica compattezza e la sua voce sempre sfrangiata, incompatibile con la comunità. Ma mai, per quanto ne so io, il regista era riuscito e riuscirà con tanta forza in una sistematica distruzione della consistenza di realtà attorno a lui: né nel tentativo - per molti aspetti analogo - di Harry a pezzi, né nel gioco di ruolo di Ombre e nebbia, né nella beffa metaforica di Match Point. Il cosiddetto "individuo" viene scomposto e non si individua più quale centro dell'essere, è un caso, catalizzatore di parole e discorsi intorno a lui; vengono smontati con dovizia sapere e perfino desideri e sentimenti (ancor più che in Vicky, Cristina, Barcelona).
In Zelig non ha soluzioni l'inadeguatezza esistenziale della persona, che ha un suo irripetibile precedente ovunque riconosciuto in Luigi Pirandello. Pensavo anche a una commedia del 1925 di Massimo Bontempelli, Nostra Dea, nella quale la protagonista cambia personalità e anima al mutar dell'abito, ma lì non c'è la dimensione interpersonale essenziale in Pirandello e in Allen: Dea è un fantoccio neutro, non ha una sua identità al di fuori del gioco scenico e non è un caso pubblico, lo stupore è confinato alle mura domestiche, come un capriccio del carattere. La sua disposizione al carattere è confinata all'abito, al ruolo sociale, alla maschera e la sua prontezza è quella della preespressività delle migliori scuole teatrali del '900.
Zelig, invece, è un personaggio pubblico e non sfonda lo schermo per raggiungere una dimensione teorica, semmai per distruggerle tutte. Però, certo, è singolare la forza con cui scrittori, registi, pensatori attribuiscano agli anni '20 quella forza millenaristica di cambiamento, di ontologica inconsistenza, di fragilità esistenziale (si pensi al coevo Benjamin Button di Francis Scott Fitzgerald, scrittore non a caso citatissimo in Zelig), che la nascita del XX secolo non aveva saputo generare. E Woody Allen è bravissimo a raccogliere queste energie in un film divertente, nel perseguire lo sconforto di Macbeth, declinato con più esplicitezza, ma con meno incisività, molto più tardi, in Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni:
Life's but a walking shadow, a poor playerThat struts and frets his hour upon the stageAnd then is heard no more: it is a taleTold by an idiot, full of sound and fury,Signifying nothing. (Shakespeare, Macbeth, act 5, sc. 5)
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