Un po’ per mestiere, un po’ perché spinto dal bisogno atavico di entrare in contatto con il buio della sala cinematografica, senza tralasciare la spinta elargitami da un’innata curiosità, mi ritrovo a prendere visione praticamente di ogni proposta filmica offerta dai cinema di zona, non indulgendo in particolari sofismi preventivi.
Certo, in tal modo è più frequente imbattermi in profonde delusioni, pellicole che per svariati motivi non riescono ad entusiasmarmi o a trasmettermi alcunché, a parte il valore “didattico”, in positivo o in negativo, offerto dalla messa in scena complessiva (modalità di regia e scrittura, interpretazioni attoriali, l’aspetto tecnico). Fra le recenti visioni ad avermi lasciato il classico amaro in bocca, vi sono Città di carta e I Fantastici Quattro: iniziando dal primo film, la trasposizione dell’omonimo bestseller di John Green (Paper Towns, 2008, Dutton Books, edito in Italia da Rizzoli) ha probabilmente sofferto di un adagiamento sugli allori offerto dal successo del precedente Colpa delle stelle (The Fault in Our Stars, Josh Boone, 2014), anch’esso tratto da un romanzo del citato Green. Gli sceneggiatori, infatti, sono gli stessi (Michael H. Weber, Scott Neustadter), mentre la regia ora è di Jake Schreier.
Cara Delevingne
La citata opera d’origine, pur con qualche lungaggine, presenta a mio avviso diverse note interessanti nel delineare uno spaccato di vita degli odierni adolescenti all’interno della società americana, divisi fra il voler perseguire le orme genitoriali, mantenendone e perpetrandone lo stato sociale di provenienza, oppure nell’infischiarsene di tali retaggi, volti a costituire un evanescente e bidimensionale “mondo di carta”, popolato da persone con eguali caratteristiche. Provano invece a mettere in piedi qualcosa d’inedito, percorrendo un personale cammino, pur nell’indifferenza generale, tra dubbi ed incertezze.
E’ quanto rappresentato, rispettivamente, da Quentin Jacobsen (Natt Wolff) e Margo Roth Spiegelman (Cara Delevingne), quest’ultima sua vicina di casa fin dai tempi delle elementari e che nel corso degli anni l’aveva coinvolto in varie scorribande, almeno prima di trasformarsi in una prima stella del liceo di Orlando, mentre “Q” si preservava il ruolo di eterna schiappa, insieme agli amici Marcus “Radar” (Justice Smith) e Ben (Austin Abrams).
Una sera però, ecco Margo bussare alla finestra della camera del vecchio amico: ha bisogno del suo aiuto per mettere in atto una spedizione punitiva, che si prolungherà fino al mattino.
Natt Wolff
Poi la ragazza sparirà di nuovo, una delle solite fughe da casa, come spiegano con fare assente i genitori alla polizia. Toccherà a “Q”, scoperta una serie d’indizi lasciati dalla fanciulla, mettersi sulle sue tracce, spinto dall’amore che prova per lei, mentre si avvicinano la consegna dei diplomi e il ballo di fine anno…
Il suddetto tema portante del libro rappresentava certo un’ottima base di partenza per una valida trasposizione cinematografica, idonea a rappresentare, al di là di ogni stereotipo proprio dell’ambientazione liceale, l’inquietudine giovanile propria di chi si trova ad affrontare, all’interno di una società in continuo cambiamento e quindi propositiva di stimoli sempre nuovi, determinati riti di passaggio necessari per traghettarsi verso l’età adulta, in un percorso formativo che porta dapprima alla conoscenza di sé e poi a quella di quanti ruotano all’interno del proprio universo, condividendone ansie e speranze.
Lo scopo è stato in parte raggiunto, ma con scarsa incisività e resa empatica, causa un limitato apporto da parte degli sceneggiatori e del regista: i primi si sono limitati a scremare le pagine del libro, il secondo a darvi visualizzazione, corredata da riferimenti musicali (Woody Guthrie) e letterari (Leaves of Grass, Walt Whitman).
Miles Teller, Kate Mara, Michael B. Jordan, Jamie Bell, Tony Kebell
Una “pellicola di carta”, facile e probabilmente non inedita battuta, ne convengo, dalla piacevole costruzione complessiva, ma sin troppo anodina e mai propriamente coinvolgente, avvolta ben presto dall’oblio.
Riguardo I Fantastici Quattro, nuovo reboot delle vicende che hanno dato origine al gruppo superomistico suo malgrado (nato nel novembre 1961, sul n.1 dell’albo Marvel loro dedicato, ad opera di Stan Lee e Jack Kirby), dopo i deludenti risultati conseguiti con i precedenti film (I Fantastici Quattro, 2005, I Fantastici Quattro e Silver Sulfer, entrambi per la regia di Tim Story, ma andrebbe ricordato anche l’indie The Fantastic Four del ’94, diretto da Oley Sassone), mi aspettavo qualcosa di più sostanzioso e “maturo”.
Da appassionato di fumetti, attendevo infatti una trasposizione che, nel rispetto dell’impianto d’origine, riuscisse ad apportare una narrazione in certo qual modo innovativa, soprattutto riguardo la caratterizzazione complessiva dei personaggi e che riuscisse a mantenere le distanze dalla consueta ipertrofica e roboante effettistica pronto uso, rendendola almeno funzionale alla narrazione.
Il regista Josh Trank, anche sceneggiatore insieme a Jeremy Slater e Simon Kinberg (il punto di partenza del soggetto è la serie Ultimate della Marvel), sembra avere un felice spunto iniziale.
Tony Kebell
Trank sceglie la strada del realismo nella rappresentazione visiva, coadiuvato dalla fosca fotografia di Matthew Jensen ed introduce con gradualità i vari personaggi, così da delinearne, assecondando in parte un inevitabile schematismo, le loro personalità, a partire da Reed Richards (Miles Teller, una volta adulto).
Lo vediamo intento fin da piccolo a costruire all’interno del garage di casa una macchina idonea al teletrasporto, coadiuvato, almeno moralmente e per la fornitura dei pezzi, da Ben Grimm (Jamie Bell, da grande). La scoperta, perfezionata negli anni, viene presentata da Reed alla fiera delle scienze liceale e notata con curiosità dal professore Franklin Storm (Reg E. Cathey), insieme alla figlia adottiva Sue (Kate Mara), tanto da far sì che il giovane si unisca al gruppo di lavoro da lui diretto, intento alla costruzione di un portale quantico.
Al suo fianco, oltre alla citata Sue, il figlio del professore, Johnny (Michael B. Jordan), ribelle con un motivo, e il disilluso Victor Von Doom (Tony Kebell), che si era allontanato dal progetto tanto per dissidi etici con gli apparati governativi finanziatori, quanto per una mancata corresponsione sentimentale con la citata Sue.
I Fantastici, improvvisamente dimentichi di contrasti personali e rancori reciproci, ora riuniti all’insegna del classico “tutti per uno, uno per tutti” sono pronti a menare le mani contro il malefico cattivone (non ci sto a chiamarlo Dr. Destino visto lo stridore offerto dal sinistro carisma presente sulla carta e quello da operetta reso invece sullo schermo). Sempre di gran carriera si giunge all’agognata conclusione, uno dei più brutti finali mai visti nella storia del cinema, recente e non, spento ed avvizzito. Più una sorta di telefilm gonfiato per le sale, due parti mal combacianti fra di loro sia nella resa visiva che contenutistica, unite alla buona, il cui unico tratto distintivo sembra essere quello di far sì che The Fantastic Four restino legati al mondo dei balloon, dove in fondo sono sempre stati rispettati nella loro essenza originaria, vero e proprio archetipo narrativo, di supereroi con superproblemi, inseriti peraltro in un ambito familistico. Ha provveduto a risollevarmi dalle poco gratificanti visioni cinematografiche, rara avis, la televisione, nella fattispecie la messa in onda su Rai 3 della fiction Non uccidere (al momento in cui scrivo trasmessa ogni venerdì in prima serata). Dopo aver seguito i primi due episodi (11 e 18 settembre), ho potuto appurare come la serie in questione sia caratterizzata da una buona sceneggiatura (Claudio Corbucci, Peppe Fiore, Stefano Grasso), pur con qualche schematismo caratteriale dei personaggi unito ad una lentezza a volte insistita, e da un’altrettanto valida regia (Giuseppe Gagliardi).
La macchina da presa nelle varie inquadrature mi è sembrata interagire con i protagonisti delle varie storie, facendone risaltare i diversi punti di vista relativamente agli eventi narrati, così come con gli elementi scenografici, ulteriormente sottolineati dai suggestivi toni plumbei della fotografia (Ferran Paredes), che crea una stretta correlazione ambiente (la città di Tonino) e personaggi, da buon noir.
Miriam Leone
La narrazione è legata alla realtà, richiamando fatti di cronaca realmente avvenuti, accadimenti delittuosi che avvengono all’interno di un nucleo familiare, in alternanza con le vicende della protagonista Valeria Ferro (Miriam Leone, brava ed intensa nel’esprimere le enigmatiche sfaccettature del personaggio), ispettore della Squadra Omicidi alla Mobile di Torino, sia nel cercare i colpevoli e soprattutto individuare le motivazioni che hanno spinto al delitto, sia riguardo i tormentati rapporti familiari con la madre (Monica Guerritore). L’impatto visivo/ contenutistico di Non uccidere, in conclusione, pur richiamando le migliori produzioni procedural drama, americane ed europee, rappresenta, almeno a parer mio, un felice punto d’incontro fra le esigenze proprie del mezzo televisivo e l’intelligenza della proposta, finalmente diversificata nell’andare incontro ad un pubblico non necessariamente omologato nel gusto e nella facoltà di scelta.