Nessuno dei frequentatori della casa si accorge del dramma dei due coniugi, che, al contrario, vengono elogiati per la serenità che trasmettono. Persino la signora Raquin, sempre presente, continua a compiacersi dell’armonia della nuova coppia, anche quando una paralisi totale le nega qualsiasi movimento o parola. I due sposi, intanto, si avviano lentamente verso l’autodistruzione: non riuscendo a scacciare il fantasma di Camille, la cui presenza si avverte ovunque, anche nel loro letto, decidono di estirpare il loro dolore alla radice. Così, nel momento in cui stanno per uccidersi reciprocamente, dopo un ultimo pianto disperato e liberatorio, vanno incontro al suicidio, insieme, per sempre uniti, proprio come avevano voluto. Dieci anni dopo l’uscita del romanzo Madame Bovary, di Gustave Flaubert, la letteratura francese è costretta a dire addio ai vagheggiamenti, alle fantasticherie e ai sentimentalismi di una donna segregata all’interno della prigione borghese. Thérèse non ha più i connotati delle grandi eroine romantiche: sebbene viva, come Emma Bovary, un’esistenza monotona, priva di sfumature e annichilente, ci appare come una creatura senza ideali, senza sogni, persino senza semplici e banali pensieri, fino al momento in cui incontra Laurent. È in questo punto che il medico osservatore registra il fattore scatenante il lento processo del degrado fisico e psichico: la donna, pur mantenendo, apparentemente, i connotati della moglie buona e mite, sperimenta l’abbandono dei freni inibitori, si sente appagata nel soddisfare quei desideri carnali che mai Camille le aveva suscitato. Thérèse si offre a Laurent, emblema della virilità e attraente nella sua possanza, come una donna segnata dal tempo, abbruttita dalla sola vicinanza di Camille, omiciattolo debole, cagionevole di salute e, ai suoi occhi, ripugnante. Credendo di essere stata, in qualche modo, contagiata dalla malattia del marito, spera di trovare la cura nell’amante, ma è proprio questa passione a causare l’insorgere di un nuovo male, questa volta senza alcun rimedio. Mi sono resa conto di quanto sia difficile, per un lettore del terzo millennio, accettare di seguire meccanicamente l’occhio di un narratore che tutto vede e tutto conosce, che non utilizza alcuno spazio per le sue riflessioni personali e che si rende indiscreto, penetrando nell’intimità dei personaggi, senza, però, mai lasciarsi coinvolgere. Forse, oggi siamo troppo abituati a vivere la letteratura come sfogo e liberazione e rimaniamo sconcertati davanti alla pretesa di dover leggere una storia come se fossimo davanti al tavolo di una sala operatoria. Ma, secondo quanto ci dice Zola, nemmeno ai suoi tempi la gente era preparata a imbattersi in letture di questo tipo. La vicenda può risultare banale, perché non ha nulla di diverso rispetto a molti fatti di cronaca che continuamente riempiono i giornali: un matrimonio infelice, un adulterio, un delitto. E, naturalmente, una tragica conclusione. L’amore passionale, l’impeto travolgente, il rifiuto di certe imposizioni: sono tutti elementi che attirano chi ha un debole per le avventure tinte di rosa. E Zola lo sapeva bene: erano tempi in cui circolavano frivoli libriccini che tenevano compagnia alle signore nei salotti, e che ormai erano entrati nel costume della società borghese. Ma le cose, fino ai giorni nostri, non sono poi tanto cambiate. E anche noi ci indigniamo, adesso, nel veder vivisezionare dei personaggi senza pietà, senza nemmeno un accenno di partecipazione emotiva. Rimaniamo congelati dal freddo, ma lucidissimo, sguardo del chirurgo. Non c’è la minima traccia di considerazioni personali e sono totalmente assenti quelle massime pseudofilosofiche che, troppo spesso, oggi, capita di leggere, mescolate a sentimentalismi inconsistenti. Thérèse e Laurent sono fatti di carne, di sangue, di muscoli e di ossa. Sono due corpi che rispondono a istinti naturali, non usano la ragione, non si cercano con il pensiero, ma con la pelle, con il fiato, con il sudore. Zola li definisce “animali con sembianze umane, niente di più”. Li studia da vicino, li osserva nel loro iniziale scambio di sguardi, proprio come due animali che si girano attorno prima dell’accoppiamento. E, poi, si insinua nelle stanze in cui avvengono i loro incontri, analizza i movimenti e le espressioni di quei corpi che lentamente si fondono insieme. Ed è un processo irreversibile, come la maggior parte dei fenomeni che avvengono in natura. Saranno per sempre uniti, in uno spietato gioco di tensioni opposte che li porterà a respingersi, pur non potendo esistere l’uno senza l’altra. Operazioni di questo tipo, adesso, richiederebbero l’anestesia. E nulla ci vieta di tornare a farci cullare dalle parole dolci e confortanti di scrittori che vogliono solo aiutarci a comprendere meglio i nostri sentimenti. Ma resta indiscutibile il fatto che solo il chirurgo con la mano ferma può portare a buon esito un’operazione.
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