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Al Cinema: recensione "Foxcatcher"

Creato il 13 marzo 2015 da Giuseppe Armellini
Al Cinema: recensione
(ci sono tanti che dicono di amare il cinema e poi vedono tutti i film in streaming, anche quelli presenti in sala in quel momento. Almeno questo qua, preso veramente da moltissimi cinema, andate a vederlo in sala. Non è un capriccio, ma un piccolo modo di aiutare veramente il Cinema a non morire)
Magistrale.
Poco tempo fa avevo espresso la mia scarsa propensione per i biopic (uscirono quasi contemporaneamente American Sniper, La teoria del Tutto, Big Eyes, Turner e The Imitation Game, visto nessuno). In realtà non ho mai capito da cosa derivi questa mia ritrosia con il genere. Poi ho pensato che anche in letteratura preferisco la narrativa ai saggi, se mai il paragone possa avere una minima attinenza. Non lo so se è perchè ho bisogno sempre e comunque di finzione, di creazione o per qualche altro motivo (in realtà non sono nemmeno un appassionato di Storia, insomma, di base non sono portato).
Però, se vedere film biografici che raccontano la vita di chicchessia non mi dice nulla, mi hanno sempre invece affascinato film che raccontano vicende realmente accadute, magari piccole, magari circoscritte, magari nascoste. Saputo che Foxcatcher raccontava dell'incredibile storia che legava uno degli uomini più ricchi d'America a due lottatori professionisti medaglie d'oro alle Olimpiadi beh, questo era proprio il soggetto per me.
E il film è letteralmente meraviglioso.
Intendiamoci, questo è un film che se uno odia lo sport magari farà un pò di fatica a seguirlo e ad amarlo.
Che poi la lotta libera è uno sport talmente anacronistico (e il più delle volte noiosissimo, poco meglio della greco-romana) che non a caso è stato escluso degli Sport Olimpici. Uno sport che affonda le proprie radici nell'antica Grecia, uno sport che non ha più senso di esistere in un mondo veloce, violento, agile, che preferisce tecniche di combattimento molto più rapide e spettacolari.
Mark Schultz è stato Medaglia d'oro Olimpica 3 anni prima a Los Angeles (attenzione però, è l'Olimpiade del boicottaggio, gli americani fecero man bassa). Ma adesso, come succede in tutto il mondo a tantissimi medagliati di sport minori, vive quasi di stenti, con quella medaglia che è forse l'unica luce in una vita grigia di allenamenti e di nulla.
Suo fratello maggiore, David, è stato anch'esso alloro olimpico nella stessa edizione. Ha una famiglia, una vita serena, un suo equilibrio.
David è punto di riferimento imprescindibile di Mark, sia nella vita che nello sport. Il suo mentore. Già, mentore, perchè questo film di mentori parla, veri o presunti che siano.
John Du Pont è uno degli uomini più ricchi d'America. Vive da solo in una villa immensa in una tenuta immensa, la Foxcatcher. Vive all'ombra della madre, appassionata di cavalli. Lui invece ama gli uccelli (è ornitologo), ama le armi, ama l'America, ama sè stesso, ama il potere (e, unendo un pò tutte le cose, si fa infatti chiamare Aquila).
E, incredibilmente, ama la lotta libera sopra ogni cosa.
E' così follemente malato di questo sport che lo vedi sempre vestito in tuta da allenatore, lui miliardario rampollo di una delle famiglie più ricche degli Stati Uniti.
Ad un anno dalle Olimpiadi di Seul contatta Mark. Lo vuole portare con sè a Foxcatcher, Vuole che si alleni là ed insegni ad altri lottatori.
Mark non può rifiutare, ci sono soldi ed una palestra che sembra un palazzetto olimpico, altro che quella sgarruppata e grigia dove si allena con suo fratello.
Ma quello che di più vuole il magnate è che quella medaglia d'oro da vincere non sia la medaglia d'oro di Mark Schultz ma la sua medaglia d'oro, di John Du Pont.
Ci sono 3 tracce nel film.
C'è quella sportiva.
C'è quella del racconto.
C'è quella psicologica.
La prima ha del miracoloso. Raramente mi era capitato di vedere ricostruzioni così perfette e verosimili. Si sa, il mondo dello sport nel cinema quasi sempre porta a risultati molto scadenti, specie nelle competizioni (negli allenamenti è più facile dare verosimiglianza). Qua, invece, le Olimpiadi, i Mondiali, i vari combattimenti sono così perfetti che quando si alternano con immagini di repertorio (magari viste in tv) nemmeno noti la differenza. Ma perfette sono tutte le ricostruzioni in generale, anche quelle di ogni singola stanza della villa Du Pont, di ogni quadro, di ogni trofeo in bacheca, di ogni foto attaccata al muro.
Anche il racconto è gestito in maniera impeccabile. Il film è un lento sprofondare in qualcosa di indefinito, un accumulo di tensione, ansia, rapporti indecifrabili, un insieme che per forza in qualche modo doveva deflagrare, come effettivamente accadrà (o "è accaduto" ricordando che è tutto vero).
Il regista, Bennet Miller, sa costruire il climax, sa girare scene, sa usare perfettamente luoghi ed attori, è certosino nel raccontare il lento avvicinamento alle Olimpiadi (vediamo sempre nella palestra il "day until" ad esempio). Non ci sono cali, non ci sono nemmeno accelerazioni in verità, è tutto un lento e costante avvicinarsi a qualcosa.
Ma è la componente psicologica la vera magia del film.
I 3 personaggi sono caratterizzati in modo pazzesco.
Il dolce e sereno David, che ama il suo sport ma non ne fa una ragione di vita, che sa giocare con i bambini anche nei momenti in cui non dovrebbe farlo, che ama sua moglie e suo fratello, che ha equilibrio e sa pure donarlo agli altri.
Di contrasto Mark, chiuso, completamente concentrato sulla lotta, infelice, represso, un ragazzo che al tempo stesso ama alla follia il fratello ma forse lo odia pure, lui che ha la sua famiglia, lui conosciuto da tutti, lui vero artefice di tutti i suoi successi.
E poi c'è Du Pont, un personaggio così pazzesco che non sembra vero. E' un 50enne paranoico e afflitto da manie di grandezza, forse latentemente omosessuale, un uomo che non ha avuto mai nessuno vicino a sè ("l'unico amico che avevo da bambino l'aveva pagato mia madre per esserlo"), un uomo che vuole dimostrare a sua madre di essere grande, di essere un punto di riferimento dell'America, di essere uno che miete successi. Ma per farlo sceglie la via più assurda, quella della lotta libera.
A tal proposito Miller gira due scene meravigliose. La prima (per me miglior sequenza del film) è quella in cui la madre arriva in palestra in carrozzina. John se ne accorge e per fari bello fa interrompere l'allenamento a tutti i lottatori fingendo di essere l'Allenatore Capo, quello che forma atleti ed uomini. Dice banalità, si mette addirittura ad insegnare mosse a dei professionisti, cercando sempre lo sguardo della madre. Ma lei se ne va, triste e delusa. Scena impressionante.
La seconda, conseguenza di questa, è quella del premio vinto (rubando, gli facevano vincere ogni incontro) da John come lottatore over 50. Vedere consegnare quel premio alla madre, ad una donna abituata a riconoscimenti a livello mondiale nell'ippica, è stato come vedere un bambino di 9 anni portare alla madre la prima medaglietta sportiva. Una scena psicologicamente strepitosa.
Ma, se riusciamo a godere di queste psicologie, è grazie alla prova impressionante dei 3 attori.
Ruffalo col viso così dolce, con quella bontà che gli leggi negli occhi.
Il sorprendente Tatum, con quel viso portato in maniera tale da sembrare quasi un minorato mentale, con quella sua postura dimessa, nascosta, schiva. E quella camminata da atleta di uno sport che ti massacra fisicamente. Tutti in realtà camminano in quel modo, anche Du Pont, quasi un film di giovani storpi distrutti da uno sport che quasi a nessuno interessa. Ho trovato quelle camminate meravigliose, quasi commoventi.
E poi c'è lui, Carell, che io avevo visto solo nel suo formidabile esordio (o almeno nel film che l'ha fatto conoscere), quello del giornalista in Una settimana da Dio. Non frequentando commedie me lo ritrovo ora, anni e anni dopo, in una interpretazione da pelle d'oca, inquietante, assolutamente perfetta. Il trucco gli permette di recitare praticamente solo con gli occhi e con piccoli movimenti del corpo e della testa. Fa letteralmente paura.
(io non parlo mai di Oscar ma, ragazzi, doveva vincere lui. E personalmente doveva vincere pure il film)
E il film va avanti mettendo dentro altre scene magnifiche come quella allucinata dentro l'elicottero (con quell'esaltazione di sè frammista al suono del mezzo e all'eccitazione da cocaina), come quella dell'abbuffata di Mark, come quella della liberazione dei cavalli, metafora perfetta della liberazione dalla madre appena morta.
Poi c'è un'Olimpiade andata male, poi c'è un gioco di rapporti tra i tre magnifico in cui ognuno (tranne David) si ritrova quasi ad esser geloso dell'altro, poi c'è un uomo ormai fuori di sè che si veste da Napoleone e guarda i filmati di quando provò a salire sul tetto del mondo dello sport.
Poi c'è uno sparo.
E un corpo sulla neve.

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