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Amy: di successo e gabbie dorate

Creato il 17 settembre 2015 da Retrò Online Magazine @retr_online

Si è appena conclusa la tre giorni che ha portato nei cinema Amy, the girl behind the name, documentario firmato da Asif Kapadia che racconta le vicissitudini di una delle più grandi voci degli ultimi anni, Amy Winehouse, scomparsa tragicamente a 27 anni il 23 luglio 2011. Un ritratto crudo, delicato, onesto, attorno al quale si tratteggia l’ombra di uno showbusiness spietato.

Amy Winehouse

Photo credit: Foter / CC BY-SA

La ragazza dietro al nome

Agosto 2011. Negli HMV di tutto il Regno Unito il volto di Amy Winehouse campeggia sugli scaffali di fronte alla porta d’ingresso, quelli riservati alle hit del momento e agli album appena usciti. È ironico il fatto che a portare quelle labbra carnose e quella chioma voluminosa sugli espositori più visibili dalla clientela non sia stata una nuova release di successo, ma la morte. È anche vero che nel mondo dello spettacolo successo e morte sono costantemente e macabramente legate: non è raro che la seconda causi il primo, o che il primo funga da catalizzatore per la seconda. Viene automatico chiedersi se questo sia anche il caso di Amy Winehouse, la voce femminile più potente degli ultimi anni. Morta da una manciata di giorni, la sua ascesa verso lo status di leggenda prosegue senza battute d’arresto, commiato dopo commiato, portata avanti in alcuni casi da quei giornalisti che fino a pochi mesi prima non risparmiavano colpi bassi sulla sua dipendenza dalle droghe e dall’alcool. Improvvisamente tutti amano Amy, piangono Amy, compatiscono Amy. O meglio, amano, piangono e compatiscono il volto affascinante che sbircia dalle copertine delle riviste del mondo intero. Ma chi era Amy? È questo che sembra chiedersi Asif Kapadia nel suo Amy, the girl behind the name. Rivelando sin dall’inizio l’intenzione di ricostruire pezzo per pezzo la ragazza talentuosa e la trappola che si era costruita e lasciata costruire attorno. Cercando, per quanto possibile, di andare oltre gli occhi espressivi e il sorriso appena accennato della diva in bianco e nero ritratta sulla cover di NME.

L’ascesa

Il desiderio di autenticità di Kapadia parte dalla base. Il documentario contiene esclusivamente filmati di repertorio provenienti dalle più svariate fonti: dai video di amici e famigliari alle immagini professionali dei canali accorsi a Camden il giorno della morte della cantante. Pellicola su pellicola, i frammenti si mischiano alle voci degli intervistati, persone che in modo più o meno stretto hanno avuto a che fare con Amy e ne hanno seguito, spesso provando un senso di impotenza, la salita e la caduta. Ed è proprio questo senso di impotenza che contagia lo spettatore, nell’assistere ad una trasformazione lenta ma inesorabile. La Amy adolescente dei primi video tra amici è spumeggiante, forse troppo. Nasconde dietro all’apparente spigliatezza quell’insicurezza che chiunque ricorda di aver provato a sedici anni. La sua dolcezza si legge nella sua incredulità quando viene messa sotto contratto e comincia ad incidere e a cantare in piccoli club. È felice, di una felicità pura e giovane. Sono quelli i momenti in cui Amy sembra davvero stare bene: quando sul palco si esibisce di fronte ad un piccolo numero di persone, quando sente di stare diventando la “cantante jazz” che ha a lungo ripetuto di voler diventare, di sentire di essere, nel profondo. La sua felicità si rispecchia in chi la circonda, negli amici, nei collaboratori, in chi per un motivo o per l’altro si ritrova ad aver a che fare con lei. Il prodotto di questo clima è Frank (2003), testimonianza delle enormi potenzialità di questa cantante dalla voce così particolare che, in controtendenza con buona parte delle artiste contemporanee, scrive da sè i propri pezzi, senza farsi infilare in bocca parole non sue.

La caduta

È una Amy, questa, che però dura ben poco. Ad un certo punto qualcosa sembra rompersi. Sarebbe impossibile, e presuntuoso, cercare di individuarne la causa precisa. A mischiarsi sono il lato negativo della fama, le costrizioni dell’industria discografica, una relazione autodistruttiva con Blake Fielder-Civil, un rapporto con il padre molto complesso. Ed è la figura del padre che, assieme a quella di Fielder-Civil, emerge con più cattiveria: il ritratto di un uomo assente per buona parte dell’infanzia e dell’adolescenza della figlia, che ricompare richiamato dal successo, instaurando una relazione burrascosa con Amy: Amy che, nonostante tutto, lo adora, e che ora che può averlo con sè non ha alcuna intenzione di allontanarlo, in una spirale di dipendenza emotiva caratterizzata dal desiderio di dimenticare tutto ciò che è stato, o meglio, che non è stato. Un ritratto pesante, che non fa sconti a Mitch Winehouse e che è stato giudicato non veritiero e diffamante dai genitori di Amy, in aperta polemica con l’autore del documentario. Che l’ombra di Mitch sia davvero così nera oppure no, pian piano ai filmati amatoriali si sostituiscono le riprese televisive dei gala, delle consegne dei premi, che lievitano dopo l’uscita, nel 2006, di Back to black, secondo album e capolavoro, osannato da pubblico e critica. Al successo e al riconoscimento del suo enorme talento si mischiano gli articoli dei tabloid inglesi riguardo alla sua relazione con Blake e ai suoi primi problemi con alcool e droga. L’immagine di Amy come piccolo prodigio della musica moderna comincia a creparsi sotto il peso delle macchine fotografiche dei paparazzi che la seguono ovunque. E sono quei flash a sottolineare l’inizio della sua caduta, violenti, rumorosi, disturbanti come proiettili, che scattano in un cicaleccio rissoso ogni qualvolta Amy muove un passo. È una Amy braccata quella sulla bocca di mezzo mondo, una Amy magra di una magrezza malata, una Amy che non ne può più e scatta contro i paparazzi, attirando su di sè altra attenzione non desiderata, altra pressione. Il rapporto con il padre mostra la sua debolezza, la sua fatale precarietà. Dopo essersi lasciati e aver frequentato altre persone, Blake e Amy ritornano assieme, si sposano e le cose, piccole parentesi felici a parte, sembrano peggiorare sempre di più.

Di responsabilità, colpe e inumanità

Quando una Amy ubriaca e irriconoscibile sale sul palco ma non inizia a cantare, vagando senza meta da un musicista all’altro, con la folla sconcertata che la osserva, lo straniamento che si è pian piano venuto a creare si palesa una volta per tutte. È la totale assenza di corrispondenza tra la seria depressione dalla cantante e la sua immagine di star volubile riflessa negli occhi di chi ha pagato un biglietto per ascoltarla. E ci si sente quasi colpevoli, a volerla sentire cantare, a tenerla impegnata contro il suo volere, a farla precipitare ancora un po’ più in basso nel suo inferno personale. Amy non voleva fare quegli ultimi concerti, nell’estate del 2011, ma era stata costretta a farlo dal suo entourage. I suoi ripetuti non voglio riportano alla mente le parole di un altro musicista scomparso a 27 anni, Kurt Cobain, che prima del suicidio scriveva “a volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco”. Stessa situazione, stessi obblighi, stessa trappola, stessa fine. E nella figura di Amy coperta da un telo bordeaux, che la mattina del 23 luglio viene caricata sul furgone delle pompe funebri sotto allo sguardo traumatizzato e incredulo dei primi accorsi, non si può non rivedere almeno un po’ Kurt. Si esce dal cinema con gli occhi lucidi, chiedendosi se Kapadia non abbia ragione, quando sostiene che la colpa della morte di Amy sia da attribuire a tutti noi. “Tutti hanno avuto parte nella rovina della cantante inglese, noi tutti siamo stati complici. La gente guarda il film e si sente in colpa. Una delle possibili letture è l’idea che un po’ tutti abbiano bullizzato Amy, ridendo di lei. Era una ragazza con dei problemi, ma ognuno ha pensato di toglierle via un pezzo senza preoccuparsi troppo delle conseguenze”. Ed è il senso di colpa che si prova nel guardare comici televisivi che si prendono gioco delle sue scorpacciate di droghe, presentatrici brillanti che con il sorriso di marmo fingono di ignorare che la cantante che hanno davanti è completamente ubriaca, paparazzi che dall’alto della loro inumanità rincorrono una ragazza che sembra scomparire sotto il peso di quello che fino a pochi anni prima era il suo sogno. È in questo modo che Kapadia raggiunge appieno il proprio obiettivo di rappresentare “the girl behind the name”: tirando in causa non solo una situazione particolare, ma l’intera macchina dell’industria discografica, che nella sua corsa verso il glamour e il monetizzabile sembra non tenere conto di chi finisce sotto le ruote. E questa è, probabilmente, la spiegazione migliore per molte delle tragiche fini di musicisti giovani, talentuosi e intrappolati. Ma si sa, le leggende e i patti con il diavolo fanno più audience.

Tags:Amy,Amy Winehouse,amy: the girl behind the name,cinema,doc,documentario,music business,musica

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