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Andrea Tagliapietra: “Non ci resta che ridere!”

Creato il 25 gennaio 2014 da Tipitosti @cinziaficco1

Ridere? E’ antidestinale.

L’aggettivo è di Andrea Tagliapietra, nato nel ’62 a Venezia, professore ordinario di Storia della filosofia Facoltà di Filosofia Università Vita-Salute San Raffaele – Milano, che di recente ha scritto un libro, dal titolo: “Non ci resta che ridere” (Il Mulino). Chi sa ridere, come ridiamo e perché dobbiamo ridere? Proviamo a capirlo con il professore.

Perché un libro dedicato alla risata?

Il tema del ridere si impone guardando in faccia la nostra epoca di crisi, austerità repressiva e passioni tristi. Un’epoca melanconica che, anche quando sembra ridere o, forse, anche quando non sembra fare altro che ridere, pare aver perso l’autentico senso della risata. Dietro ciò che fa piangere come dietro a ciò che fa ridere c’è la stessa percezione umana del limite, affilato e tagliente, da toglierci persino le parole, come succede quando si piange o si ride. Soltanto che, ed è quello che cerco di ribadire nel libro, il ridere e il comico, implicano un intimo movimento di trascendenza rispetto al significato vincolante, repressivo e necessitante che il limite assume, invece, nel tragico. Ridere, infatti, libera e ci libera. È un atto antidestinale, che spalanca la realtà sulla possibilità.

Andrea Tagliapietra: “Non ci resta che ridere!”
Ridere è spezzare la logica, destabilizzare, mettere in discussione, relativizzare. Quando ridiamo ci regaliamo momenti, lei dice, di trascendenza. E’ per questo che ridere è tosto? Ed è anche per questo che chi ride e fa ridere fa tanta paura? Umberto Eco e Il Nome della rosa ce lo dimostrano.

Ridere significa che ciò che accade, per quanto negativo, non è il destino, ma quell’accidente che può sempre essere superato e trasceso almeno con una risata. Nel ridere la condizione umana sfugge agli assoluti, cavalca l’onda delle intermittenze e della rapidità dello spirito. Tutto oscilla e anche la maschera del potere si sposta e mostra la sua smorfia obliqua.

Nel tragico, invece?

Si afferma l’inesorabile costrizione del destino, la permanenza e la stabilità di ciò che dobbiamo continuare a subire perché non c’è alternativa. Per questo il tragico piace ai potenti. Furono i tiranni, in Grecia, a istituzionalizzare gli spettacoli tragici. Se gli esseri umani si immaginano sottoposti alla necessità, essi divengono inclini alla rassegnazione e, quindi, all’obbedienza. Così il potere avrà sempre un formidabile alleato per affermarsi e lasciare la propria impronta sulla vita degli individui. E questo non solo in Grecia o nel Medioevo – pensiamo appunto a Il nome della rosa, ma in qualsiasi epoca. Il comico, invece, quando non è giullaresco e servile, è scomodo e, quindi, per dirla come lei mi suggerisce, indubbiamente “tosto”. Purtroppo quelli che vogliono cambiare il mondo, i cosiddetti rivoluzionari, si prendono maledettamente sul serio, perché spesso sostituiscono ciò che credono necessario, ossia la loro necessità, alla necessità del potere vigente. Il fanatico, anche se mostra i denti, non ride mai e così le rivoluzioni falliscono e naufragano in un bagno di lacrime e sangue. Provocatoriamente, si potrebbe sostenere che l’unica rivoluzione in grado di avere successo sarebbe quella  fatta ridendo e con il sorriso sulle labbra. È, infatti, quella che non è ancora stata fatta.

Ridere è darsi alternative tra un futuro che sembra apocalittico e la quotidianità misera. L’ironia è distacco. Ma non è da tutti. Chi ci riesce?

Ridere è prendere congedo dagli assoluti e dall’adesione assoluta a qualsiasi idea fissa. Il ridere è, quindi, di per sé scettico. Diventa difficile perché, al di là delle adesioni ideologiche consapevoli, il senso comune, che è l’alambicco in cui si distillano le ideologie, ossia il luogo dove esse diventano trasparenti e inebrianti come l’alcool, ci spinge ad aderire alla realtà per inerzia. Di conseguenza il distacco è possibile coltivando il bagliore delle proprie risate e facendole agire su quell’inerzia. Assieme al nuovo e diverso si affaccerà anche un tipo d’individuo che sa esserne all’altezza, l’uomo libero, che non può che essere un personaggio ironico, un maestro e insieme un allievo d’ironia, che sa lavorare su se stesso e sulle proprie fissazioni tanto quanto sulle idee fisse collettive, di cui continuamente ride.

Andrea Tagliapietra: “Non ci resta che ridere!”

Secondo lei è diventato più tosto oggi ridere?

Sì. Perché il ridere si scatena dall’incongruenza, dalla disomogeneità, dalla radicalità del diverso, dallo spreco senza tornaconto dell’energia vitale, dall’abissale differenza di ciò che non può essere ridotto al criterio e alla norma, mentre la nostra epoca di crepuscolari abitatori della modernità tende all’uniforme, all’omogeneo, alla saturazione, all’adeguamento, all’accumulazione. Ridere, così, non trascende più nulla, ma è soltanto l’altra faccia della medaglia della serietà. Non si tratta di un riso tosto, ma, anzi, del suo esatto contrario.

Cioè?

È un ridere fiacco, gommoso, arrendevole, volubile. Nella società dello spettacolo si ride per divertirsi, distrarsi un po’ e quindi tornare, apparentemente rinfrancati agli obblighi del principio di prestazione, alla mobilitazione totale del produttore/consumatore, all’incubo della riduzione di ogni sfera dell’esperienza umana al comportamento economico, al capitalismus sive natura. Nel ridere è evidente come si rifletta la forza espansiva e la generosità dispendiosa della vita stessa, la rigogliosa proliferazione dei viventi. È per questo che mi piace leggere l’abusata metafora poetica per cui il prato ride, in una direzione doppia.

Cosa vuole dire?

Da un lato, certo, il prato, smagliante e illuminato dal sole, assomiglia alla felicità senz’ombra di un volto umano ridente, ma, dall’altro, ogni risata autentica è come un prato, carico di vita, esuberante di fiori e d’erba, ricco di promesse, di gioia, spazio di amore e gioco.

Nel suo libro lei distingue il riso dal sorriso.

Andrea Tagliapietra: “Non ci resta che ridere!”

Esatto. Bisogna distinguere il ridere dal sorridere. Ridere ci appare, almeno in prima battuta, un fenomeno esplosivo: qualcosa che non possiamo controllare e ci travolge sin dalla mimica facciale e dalla reazione spontanea di tutto il nostro corpo (interruzione del respiro, rilassamento del diaframma, ecc.). Il sorriso, invece, è un gesto, un’espressione intenzionale di cui siamo padroni e che rivolgiamo agli altri. Il sorriso, anche quando dice “sì”, ricorda che la sorgente della sua forza e della sua autonomia nasce dal “no” e dall’enigma del limite, di cui parlavo all’inizio. Il racconto dei miti presenti in tutte le culture ci insegna che gli enigmi non esistono per essere risolti.

Ma?

Si potrebbe dire che la prima trappola che gli enigmi ci tendono sia quella di far credere di essere dei problemi da risolvere, solo particolarmente ingarbugliati. L’enigma ci mette alla prova e, se ne siamo all’altezza, come, appunto, nelle favole e nei miti dove gli enigmi sono posti là dove il personaggio viene messo di fronte alla trasformazione per lui decisiva, esso cambia la nostra esistenza.

Questo cosa c’entra con il sorriso?

Lo stesso avviene con l’enigma del riso. Se ridessimo “solo” di una persona, di una situazione, di un sentimento, avremmo delle spiegazioni, in fondo di solito piuttosto banali. In realtà il riso, anche quando scaturisce da un motivo esterno ed esteriore, ritorna prima o poi su di noi e lavora collegando ciò che siamo a ciò che potremmo essere.

Ridere o meglio sorridere è stupirsi, giocare con i paradossi, è un atto creativo, perché è non accettare la forza di gravità dell’esistenza. La risata è la nostra salvezza?

La potenza del riso è che ridendo di qualcosa, noi ridiamo sempre anche delle coordinate della realtà ristretta che fa essere quel qualcosa “solo” quel qualcosa isolato e, quindi, di tutte quelle “coppie” che sembrano ordinare la realtà ma che, nel ridere, cominciano improvvisamente ad oscillare e a diventare “fluide”: mente/corpo; spirito/materia; intenzione/inconscio; vivente/macchina; uomo/ animale; io/altro; serietà/gioco; verità/illusione; essere/nulla, ecc. È evidente allora che ridere della realtà dischiude quest’ultima sull’orizzonte vertiginoso e sterminato della possibilità. La creatività implica la possibilità e la possibilità è ciò che rende la realtà umanamente abitabile. L’uomo è un animale simbolico e culturale, che vive di immaginazione, proteso verso quell’esser già del non ancora che, per me, descrive l’orizzonte in movimento della possibilità. Il filosofo francese Henri Bergson la chiamava virtualità. La conquista della posizione eretta, nel nostro più remoto progenitore, è stata anche la scoperta dell’inesauribile fonte di stupore dell’orizzonte mentre camminiamo. Gli antichi ominidi abbandonarono la sicurezza della foresta e dei suoi alberi e la visione ristretta del quadrupede per inoltrarsi nella vastità della savana. Così forse è nata la possibilità e forse, fra quei misteriosi bipedi, anche la prima risata.

I comici in politica: cosa mi dice?

Nella politica moderna si fa un gran dispendio di risa e di sorrisi, impensabili sui volti seri, se non arcigni, dei potenti del passato. Milan Kundera, in un suo romanzo, diceva che un busto di Giulio Cesare che sghignazza è inconcepibile. Eppure, tutti i volti dei governanti delle democrazie occidentali hanno, chi più chi meno, il sorriso stampato sulla faccia, per ostentare sicurezza e suscitare la simpatia degli elettori. Berlusconi ride e fa ridere, raccontando barzellette salaci, ma in particolare provocando un insieme di reazioni comiche, dalle battute ai tormentoni linguistici, dalle imitazioni dei sosia fino alla parodia e alla satira più feroce. Durante i vent’anni in cui la sua figura, al di là dell’esercizio diretto del potere, ha dominato la scena politica, Berlusconi ha fatto nascere e sviluppare un gruppo di comici, dagli stili e dalla comicità molto diversa fra loro, ma accomunati da quella che potremmo definire la loro funzione pubblica. È stata l’opposizione vicaria. Così, mentre la sinistra politica non era in grado di produrre una reale cultura alternativa rispetto al mito berlusconiano e del suo pensiero unico, i comici, con le loro risate, davano uno sfogo simbolico agli umori della gente.

Con quali effetti concreti?

La derisione di Berlusconi, lungi dall’indebolirlo, lo rafforzava. Per due motivi. Il primo è insito nel principio di sopravvivenza del potere: se il potente sa sopravvivere alla sua caricatura, diventa più forte e anche, in qualche misura, più simpatico. Il secondo perché lo sfogo distraeva e depotenziava l’opposizione popolare, distribuendo insieme appagamento e frustrazione.

Il  fenomeno di Beppe Grillo?

Il consenso a Grillo è composto da chi, ormai avverso a Berlusconi e frustrato dall’inconcludenza dell’opposizione politica del PD e dei suoi alleati, nonché dall’oggettiva convergenza delle politiche economiche dei due schieramenti e dai sempre più frequenti scandali e corruttele che coinvolgono anche esponenti della sinistra, deride l’intera classe politica, ora divenuta la “casta”. I comizi-spettacolo di Grillo mostrano l’indiscussa maestria del comico genovese nel catalizzare la rabbia dei cittadini, facendola esplodere nella liberazione non violenta della risata, ma anche in una vaga speranza di riscatto, a cui, per l’appunto, si sono appigliati i milioni di elettori che lo hanno votato.

E Renzi?

Andrea Tagliapietra: “Non ci resta che ridere!”

Accenna l’impiego di battute comiche, sin dallo slogan aggressivo della rottamazione, con cui si è affacciato sulla scena politica nazionale. Renzi attinge all’immaginario televisivo infantile (Goldrake, Jo Condor, per esempio) e all’espressività conferita dall’accento toscano.

Per chiudere, come abbandonare la nostra risata, fragorosa, ma inautentica, e tornare a ridere in modo sincero ?

Per cominciare a ridere meglio e quindi, per ritrovare il sorriso dell’autonomia, bisognerebbe essere meno seri, ossia meno attaccati alla realtà così com’è, più critici verso il sistema dei saperi e dei poteri che ci domina e ci impone la sua agenda ossessiva e distruttiva. Il ridere che vorrei ricuperassimo tutti è, poi, un riso che unisce e accomuna. Fra le possibili radici etimologiche della parola “comico” c’è il greco “kômos”, ossia la festa, il banchetto. Si ride assieme quando il ridere “di” non viene isolato dal ridere “con” e dal ridere “per”, ossia dalla liberazione. Se c’è il ridere di tutti contro uno, non si ride, ma si “deride” e la derisione è una degenerazione del comico, una perversione del moto di inclusione della risata, usato per escludere e  fare male. In verità chi deride non manifesta gioia, ma intimo risentimento e, in fondo, una tragica tristezza. Molto del riso che occupa le nostre bocche, in quest’epoca stolta, è, infatti, come ho detto, riso di derisione e autoderisione.

                                                                                                                         Cinzia Ficco


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