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Mentre Trendafil scappa dalla guerra la suocera al seguito muore sotto un albero. La vecchia viene avvolta in un tappeto che però viene rubato, allora il disertore chiama il fratello di sangue italiano Santino (Adolfo Margiotta) per farsi aiutare.
Stimolati dall’eccentrica visione di Goodbye, 20th Century (1998) non potevamo esimerci dall’approfondire il lavoro di Darko Mitrevski (qui orfano del socio Aleksandar Popovski) date le potenzialità scorte in questo strambo film. Bal-Can-Can arriva sette anni dopo e presenta già una peculiarità che riguarda la nostra Italia, l’opera è stata infatti coprodotta dalla Minerva e al suo interno si può rintracciare un continuo bilinguismo dove la parte del Bel Paese è affidata a quel Margiotta famoso per i suoi sketch con la spalla Olcese, mentre in tutta la restante componente dialogica si alternano le lingue diverse & uguali della penisola balcanica.
Perché questo, e lo si può intuire dal titolo, è il ritratto di una geografia, inevitabilmente deturpata, dove la storiella della nonna morta arrotolata nel tappeto è la facciata che in realtà cela un ritratto trasversale di macerie e detriti, ovvero quel che resta dopo che l’esistenza finisce nel tritacarne della guerra.
Rispetto al film precedente il tono grottesco è meno colorito pur essendo presente (il padre di Santino che attraversa l’Adriatico a nuoto!), e si punta, almeno fino a mezz’ora dalla fine, ad un’esposizione da commedia episodica in cui si affastellano tante piccole gag abbastanza riuscite; già l’inizio con i morti che parlano nell’obitorio indica una certa strada ironica, nel prosieguo notiamo altre scenette degne come l’antipatia della vecchia nei confronti del genero o il vicino di casa che fa gli appostamenti a Trendafil per trascinarlo sotto le armi.
Fino a che non viene rubato il cadavere della suocera si segue questo registro, godibile, leggero, ladro di qualche sorriso. Quando entra in gioco Santino le carte in tavola cambiano, non si abbandona la commedia ma la vicenda imbrunisce a vista d’occhio. D’altronde ci era già stato dato un suggerimento attraverso la descrizione di Trendafil la cui vita è scandita dai grandi conflitti mondiali, con i due che si mettono alla ricerca del tappeto ecco palesarsi il vero fine dell’opera: mostrare grazie al loro errare in quali condizioni stiano i Balcani dopo gli anni di guerriglia interna.
Di nuovo si sceglie la via aneddotica in cui la coppia viaggiando per i paesi incontra le molteplici sfaccettature di un popolo irrimediabilmente diviso. Ci sono momenti buonissimi, soprattutto quello che riguarda croati e musulmani che offrono uno spaccato satirico della non belligeranza, e quando tutto finisce in una carneficina non si può che ridere amaramente.
Mitrevski però decide negli ultimi 30 minuti di alzare il tiro e di stravolgere in parte l’atmosfera della pellicola. Il villain di turno, stesso nome e stessa professione del padre che fregò i genitori dei protagonisti 50 anni prima, è uno cattivo davvero, tanto che la sua “fabbrica” si occupa di rivendere organi di bambini. La sparatoria che ne consegue è ben diversa da quella del film precedente in cui si stigmatizzava la ridicolaggine degli action-movie, qui sembra proprio di essere in un film americano dove l’eroe (che puntualmente aveva ribadito di non essere tale) uccide gli antagonisti e salva la bambina a cui hanno ammazzato la madre.
Tutto accade velocemente e in maniera disomogenea rispetto a ciò che fino a quel momento avevamo visto.
Ricapitolando: un film edificato sulle trovate che si burlano di una realtà durissima come quella ripresa. Tra ciò che funziona e ciò che no si finisce in parità, la sufficienza è raggiunta e lì ci si ferma.
Stimolati dall’eccentrica visione di Goodbye, 20th Century (1998) non potevamo esimerci dall’approfondire il lavoro di Darko Mitrevski (qui orfano del socio Aleksandar Popovski) date le potenzialità scorte in questo strambo film. Bal-Can-Can arriva sette anni dopo e presenta già una peculiarità che riguarda la nostra Italia, l’opera è stata infatti coprodotta dalla Minerva e al suo interno si può rintracciare un continuo bilinguismo dove la parte del Bel Paese è affidata a quel Margiotta famoso per i suoi sketch con la spalla Olcese, mentre in tutta la restante componente dialogica si alternano le lingue diverse & uguali della penisola balcanica.
Perché questo, e lo si può intuire dal titolo, è il ritratto di una geografia, inevitabilmente deturpata, dove la storiella della nonna morta arrotolata nel tappeto è la facciata che in realtà cela un ritratto trasversale di macerie e detriti, ovvero quel che resta dopo che l’esistenza finisce nel tritacarne della guerra.
Rispetto al film precedente il tono grottesco è meno colorito pur essendo presente (il padre di Santino che attraversa l’Adriatico a nuoto!), e si punta, almeno fino a mezz’ora dalla fine, ad un’esposizione da commedia episodica in cui si affastellano tante piccole gag abbastanza riuscite; già l’inizio con i morti che parlano nell’obitorio indica una certa strada ironica, nel prosieguo notiamo altre scenette degne come l’antipatia della vecchia nei confronti del genero o il vicino di casa che fa gli appostamenti a Trendafil per trascinarlo sotto le armi.
Fino a che non viene rubato il cadavere della suocera si segue questo registro, godibile, leggero, ladro di qualche sorriso. Quando entra in gioco Santino le carte in tavola cambiano, non si abbandona la commedia ma la vicenda imbrunisce a vista d’occhio. D’altronde ci era già stato dato un suggerimento attraverso la descrizione di Trendafil la cui vita è scandita dai grandi conflitti mondiali, con i due che si mettono alla ricerca del tappeto ecco palesarsi il vero fine dell’opera: mostrare grazie al loro errare in quali condizioni stiano i Balcani dopo gli anni di guerriglia interna.
Di nuovo si sceglie la via aneddotica in cui la coppia viaggiando per i paesi incontra le molteplici sfaccettature di un popolo irrimediabilmente diviso. Ci sono momenti buonissimi, soprattutto quello che riguarda croati e musulmani che offrono uno spaccato satirico della non belligeranza, e quando tutto finisce in una carneficina non si può che ridere amaramente.
Mitrevski però decide negli ultimi 30 minuti di alzare il tiro e di stravolgere in parte l’atmosfera della pellicola. Il villain di turno, stesso nome e stessa professione del padre che fregò i genitori dei protagonisti 50 anni prima, è uno cattivo davvero, tanto che la sua “fabbrica” si occupa di rivendere organi di bambini. La sparatoria che ne consegue è ben diversa da quella del film precedente in cui si stigmatizzava la ridicolaggine degli action-movie, qui sembra proprio di essere in un film americano dove l’eroe (che puntualmente aveva ribadito di non essere tale) uccide gli antagonisti e salva la bambina a cui hanno ammazzato la madre.
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