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Boys don't cry

Da Carlo Deffenu
BOYS DON'T CRY Ci pensavo da un po': aprire la cartella dei "racconti vecchi" e togliere fuori qualcosa. Si cambia. Lo so. Si cambia nella consapevolezza, nel controllo, nella misura...ma una certa urgenza rimane. Vi "regalo" un racconto "lungo". Non so perché...forse lo regalo a me stesso. Capita di sentirne il bisogno: mettere un punto...per volare altrove. La prima parte è qui...domani la seconda. Buona lettura. 
BOYS DON’T CRY  “Now i would do most anything/ to get you back by my side/ but i just keep on laughing/ hiding the tears in my eyes/ because boys don't cry…” “Ora farei praticamente tutto / Per riportarti da me / Invece continuo soltanto a ridere/ Nascondendo le lacrime nei miei occhi/ Perché i ragazzi non piangono…” “Boys don’t cry” – The Cure Morire in pieno agosto non è una buona idea. Complichi la vita a mezzo mondo: amici che devono rientrare dalle ferie, parenti costretti a sfilare i sandali per indossare un paio di scarpe eleganti, colleghi d’ufficio richiamati da un tam-tam di telefonate nelle più remote località di villeggiatura. Per assurdo, quando cerchi di immaginare il tuo funerale – perché almeno una volta nella vita ci è capitato di pensarlo – riesci a vedere soltanto una fila interminabile di macchine in direzione del cimitero, volti ombreggiati dallo stupore e dallo sconforto per una perdita inattesa, e una persistente pioggerellina, fredda e silenziosa, che cade sulle teste cotonate delle signore, sui fiori che adornano il carro e sulle giacche nere dei corvi delle pompe funebri. Ti illudi quasi che il cielo, con quella pioggia insistente, partecipi al dolore di chi ti ha amato, piangendo la tua scomparsa nel modo più scenografico che si possa desiderare.Penso a tutte queste cose mentre seguo il movimento del tergicristallo che lava via la polvere dal parabrezza, in coda sulla strada che porta alla chiesa del piccolo borgo dove si celebrerà il funerale di Alfonso.
 La chiamata è arrivata due giorni prima. La notte del quattordici. Un giorno speciale per la mia città. Alla vigilia di ferragosto i nove gremi che rappresentano le corporazioni dei lavoratori, per onorare un voto alla Madonna Assunta che liberò la città da una terribile epidemia nel 1580, compiono di corsa la discesa di Corso Vittorio Emanuele e Corso Vico, tra due ali di folla festante e il rullo assordante dei tamburi, portando in spalla enormi candelieri di legno. Ogni gremio viene rappresentato da otto giovani vestiti con il costume dell’associazione di appartenenza, e tutti si muovono al ritmo cadenzato dei tamburi e al suono dei pifferi che seguono la corsa. Per la Faradda di li Candareri quasi tutti gli esercizi commerciali che si affacciano su Piazza Santa Maria restano aperti fino a tarda notte, in attesa che l’ultimo candeliere varchi il portone della chiesa e la gente cominci a scemare lentamente, frastornata dai canti, i balli, il vino e le preghiere. Tutti vendono birra ghiacciata, bibite, patatine, panini e tramezzini. La gente, in preda ad un’incontrollabile frenesia alimentare, compra e mangia di tutto e gli affari, in quel lungo giorno di festa, prosperano con la benedizione della Madonna. Appena cala il sipario sulla “festa manna” – l’unica veramente sentita dalla popolazione - molti esercizi commerciali chiudono per ferie e il quartiere delle Conce, con le sue case basse, i muri scrostati, le finestre di legno, i tetti di tegole dove i semi delle erbacce portati dal vento crescono impavidi, si svuota all’improvviso. Mi capita di tagliare per il quartiere quando vado a lezione in facoltà, e tutte le volte vengo sorpreso dall’odore che trasuda dai muri, dai viottoli stretti dove si passa a fatica con la macchina, e dalle facce aperte delle persone che ti salutano con un sorriso dai balconi: un caffè e un bicchierino di liquore non si negano a nessuno. Si ha quasi l’impressione, camminando per quelle vie strette, che un piccolo paese dell’entroterra sia stato incastonato nel cuore della città.La sera del quattordici, con un gruppo di amici, bevevo birra nell’edicola di Flavio in attesa della fine del turno. Antonio, suo fratello maggiore, e Aldo si erano persi tra la folla e le bancarelle colorate, in attesa di darci il cambio.  Il cielo era limpido e le stelle luccicavano come tanti piccoli occhi furbi.«Vado a prendere dell’altra birra fresca» dissi a Flavio, mentre porgeva il resto a una signora.«Ok, vai pure, ma non farti fregare…che sia fresca davvero!» rispose, continuando a seguire i movimenti di un gruppo di ragazzini intorno al carrello dei libri.Mi diressi verso il negozio di frutta e verdura di Marisa, guardando la folla in movimento intorno alla chiesa, illuminata dai grandi fari piazzati dal comune qualche giorno prima. Le luci potenti trasformavano la strada in un enorme set cinematografico all’aria aperta. Entrai nel negozio e salutai il marito di Marisa che fumava una sigaretta sulla porta. Il gigantesco cesto di plastica con il ghiaccio dentro traboccava di brillanti lattine di tutti i colori: ne presi quattro al volo e tornai al chiosco, senza pensieri ingombranti a intasare la testa. Sono momenti rari, e per questo preziosi, quelli in cui la mente si svuota di tutti i pensieri, proprio tutti, positivi e negativi, e ti limiti a vivere ogni piccolo attimo senza darti pena per quello che potrebbe arrivare dopo. Respiri, l’aria entra e esce dai polmoni, e capisci che nient’altro conta più di quel sentirsi vivo. Rientrato nel chiosco, Flavio mi avvisò che il telefonino squillava insistentemente da qualche secondo.Mi fermai sulla porta, appoggiai le lattine sul ripiano della cassa e frugai nello zaino per cercare il cellulare. Lo trovai, guardai il display e vidi lampeggiare il nome “Marcello”.Risposi senza sapere chi fosse: «Pronto …»«Pronto, parlo con Ettore?» chiese una voce scura dall’altra parte.«Sì, chi parla?» chiesi, cercando di mettere a fuoco la voce.«Sono Marcello, l’amico di Alfonso, ci siamo conosciuti alla sua festa di compleanno, ricordi?» mi disse.Focalizzai il viso in un istante. «Certo che mi ricordo» risposi, uscendo dall’edicola per sentire meglio. «Ma cos’è questa voce da funerale?»Lui non rispose subito, ci fu una pausa, un vuoto, un ronzio di nulla e dopo un attimo di sospensione disse: «Alfonso non è più qui.»«Cosa?» dissi, certo di non aver capito.«Non hai saputo niente?»«Di cosa parli?»«Mio Dio…non posso ancora crederci…»Un fischio mi trapassò il timpano, ma non ne distinsi la fonte.«Marcello? Ci sei?»«Sì, sì…scusa, sono ancora scosso e…»«Mi dici cos’è successo?»«Se n'è andato via… per sempre» ripeté, con una voce che non aveva più niente di umano.«Vuoi dire che è morto?» chiesi incredulo.«Sì, non c’è più. E pensare che non gli ho più rivolto la parola dopo la nostra ultima lite e adesso…adesso…mio Dio…che coglione che sono stato!»Marcello biascicava le parole, tirando su con il naso: la voce si avvicinava e si allontanava di continuo, come se si muovesse nervoso in una stanza chiusa. «Ma com’è possibile? Ci siamo sentiti pochi giorni fa! Stava bene, scherzava. Cosa gli è capitato?» chiesi, mentre cercavo di ricordare cosa ci eravamo detti di preciso in quell’ultima telefonata.«Non sapevi del ricovero? Era in ospedale da una settimana. Negli ultimi due giorni è peggiorato e questo pomeriggio non ce l’ ha fatta…»Non riuscivo a capacitarmi di quello che Marcello mi riferiva e non capivo perché fosse proprio lui a darmi quella notizia assurda. Tra tutti gli amici di Alfonso era quello più inaspettato. «Io non sapevo nulla di questo ricovero…» provai a dire, ma Marcello mi rispose che doveva calmarsi un po’.«Ci risentiamo più avanti, scusami… non riesco a parlare…»«Aspetta…non chiudere…»Interruppe la comunicazione e io rimasi come un fesso, fuori dal chiosco, con il cellulare in mano, senza sapere cosa dire e cosa pensare. Il telefonino mi ripeteva all’infinito “Tu-Tu-Tu-Tu” .Rientrai in edicola con la testa confusa.«La birra si scalda se non ti sbrighi» mi disse Flavio, sollevando la lattina.«Cos’hai?» mi chiese subito dopo allarmato, vedendo la mia espressione sconvolta.«Alfonso è morto» risposi.«Eh?»«Alfonso è morto.»Presi una lattina di birra dalla mensola e la aprii. Era calda davvero.Flavio disse qualcosa, ma non sentivo le parole che pronunciava, la mia mente era bloccata, chiusa da mille serrature arrugginite.La birra non solo era calda, sentivo tutto l’amaro dell’orzo e la lingua si ribellava a quel sapore sgradevole. Una signora chiese La settimana enigmistica, Flavio si voltò con riluttanza e le consegnò una copia della rivista, prendendo i soldi e dando il resto il più velocemente possibile. Mi accorsi di avere gli occhi asciutti quando ripresi a focalizzarli di nuovo sul suo volto preoccupato. Continuava a parlare con voce calma, usando parole di un idioma sconosciuto. Dopo un po’ capii che parlava al cellulare con qualcuno, evitando di farsi sentire. Passarono pochi minuti. Tornarono Antonio e Aldo, pallidi e in evidente stato di choc, completamente indifesi davanti al mio silenzio attonito. Salutai tutti e dopo aver chiesto scusa per la mia fuga repentina, uscii di corsa dall’edicola, dirigendomi barcollante verso la macchina parcheggiata qualche strada più avanti. Tornai a casa con la testa che girava all’impazzata, inseguendo pensieri e ricordi. Percorsi il tragitto in totale stato di trance, e solo quando mi fermai davanti al cancello di casa le lacrime arrivarono come un’onda anomala, travolgendomi con l’impeto della loro forza.

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