A quel bellimbusto del cantante gli direi che non accetto paternali, arringhe – al massimo aringhe che da quando le ho mangiate a colazione in Olanda è cambiato il mio approccio al risveglio – accuse e sollecitazioni alla rivolta, da nessuno e tanto meno da uno che non ha mai lavorato in vita sua. Ma chi si credono di essere questi lazzaroni che al massimo devono portarsi appresso un microfono e il libello con le loro poesiole scritte a penna mentre il resto della band si spezza la schiena con strumenti pesantissimi e amplificatori? Poi si mettono lì in posa a pontificare su questo e su quello e sotto i più fanatici che sbavano a raccogliere le emanazioni corporee. Che schifo. E che ingiustizia, soprattutto. Anche solo a sentirli predicare in italiano nelle loro composizioni ascoltate alla radio, sullo stereo o in cuffia, con quelle consonanti pronunciate fintamente come se fossero inglesi madrelingua che in confronto la dizione di Don Lurio o di Shel Shapiro è al livello di Vittorio Gassman. Per non parlare delle storie che cercano di comporre nei testi. Io proprio non le riesco a seguire. C’è davvero un capo e una coda? Un flusso narrativo? O sono parole messe solo per bellezza? In Italia le parole delle canzoni si chiamano anche liriche, una sorta di “falso amico” tradotto a cazzo dall’inglese, che nella nostra lingua capita a fagiolo perché gli autori delle canzoni possono far intendere che hanno scritto una cosa che sta a metà tra una poesia e un componimento di prosa, ognuno può intenderlo come vuole e loro possono al contempo esimersi da qualunque responsabilità. Ah ma mica sono un poeta, io. Ah ma mica sono un narratore. Sono solo canzonette, si diceva una volta. Quindi non chiedetemi un’esegesi delle corbellerie che mettete nelle vostre canzoni italiane perché proprio non ci arrivo, se poi non siete espliciti come Guccini o gente di quel calibro lì potete anche trovare qualcun altro. Io poi mi perdo a separare linee di basso, suoni di synth, zappate sulla chitarra e scomposizioni ritmiche per cui le parole proprio ciao. Non è il mio mestiere. Ecco perché ascolto musica cantata in inglese: la voce è solo un suono in più, non capisco una mazza, mi godo la beata ignoranza delle vibrazioni che percepisco, e al massimo ai concerti accompagno i miei brani preferiti con dei versi sperando di non avere intorno qualcuno che prende le cose sul serio.
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