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A distanza di una quindicina d'anni sono tornato a leggere Niente canzoni d'amore, una raccolta di racconti di Charles Bukowski. Il libro che ho a casa è l'edizione di Guanda del 2001. Dopo tanto tempo questa raccolta mi ha sorpreso di nuovo, ancora, ma in modo diverso. Storie vive, incisive, l'odore della solitudine che si alza dalle pagine, dalla grottesca galleria di ritratti che l'autore ci propone. Racconti duri, mai privi di una sotterranea poesia, quel qualcosa che Bukowski tiene ben nascosto, come ci racconta nella sua poesia Blue Bird, e fa volare fuori e cantare di notte, quando nessuno può vederlo, ascoltarlo.
Niente canzoni d'amore parla un linguaggio diverso rispetto ad altri lavori di Bukowski, penso a Storie di ordinaria follia, Musica per organi caldi, Compagni di sbronze. Quello che ho tenuto di nuovo in mano, e che è poi transitato dagli occhi ai pensieri, è un libro che interpreto come ponte tra la narrativa e la poesia dell'autore. Mondi così diversi, che solo una grande sensibilità può riuscire a conciliare all'interno di uno stesso cervello, di uno stesso immaginario, di una stessa esperienze e produzione letteraria che si interseca con la strada. Dopo quindici anni le differenze mi sembrano più nette, riesco a distinguerle con maggiore chiarezza. Ma può essere anche un problema della mia memoria e sensibilità. Niente canzoni d'amore manca in parte dell'aggressività, della durezza narrativa, dell'esasperato realismo, elementi caratteristici della narrativa di Bukowski, ma non per questo delude, anzi.
Per capirci, è come se per una volta Bukowski in questi ventuno racconti si fosse elevato di qualche decina di centimetri sopra se stesso, facendo pace con se stesso, pronto però a litigare furiosamente di nuovo, da un momento all'altro, come in un rapporto passionale, profondo e nello stesso tempo instabile. Il realismo è sempre la scena di ogni pensiero, di ogni azione, di tutte le bottiglie, di tutti i generi di solitudine che l'autore è riuscito a catturare in giro, tra le sue strade speciali, banali ma introvabili, e i bar costruiti sulla collina dell'ombelico dell'inferno. Si, penso proprio che Bukowski abbia ricevuto in dono una rete magica, capace di intrappolare in un piccolo spazio le enormità delle esistenze, vite intere per le quali ci vorrebbero mille pagine per farle parlare, evolvere e estendere, non certo le impossibili sei o sette pagine tridimensionali alle quali l'autore ci ha abituato. I suoi racconti sono come un gioco di specchi, una stanza che moltiplica l'immagine del visitatore, proiettandolo venti, trenta volte, sempre lo stesso soggetto, ma da un punto di vista ogni volta diverso. Sempre l'uomo, solo con se stesso. Si può essere soli in così tanti modi, accorgercene oppure no.
Se non manca dunque il solito grande realismo dell'autore, il migliore conduttore per trasmetterci nelle storie, sbatterci tra le pagine, anche quelle più sporche e consumate, dove sono dunque le differenze di Niente canzoni d'amore? Magari ho preso un abbaglio, cerco di spiegarmi meglio. Lo stile dei racconti è più introspettivo e riesce a prenderci di petto ancora più delle provocazioni, del linguaggio aggressivo di altre opere che per qualche secondo, per qualche riga, sembra poter fare meglio sulle nostre emozioni, scuoterci. Ma l'obiettivo di questa raccolta non è quello di prenderci per il braccio e strattonarci con forza, svegliarci dalla nostra limitata esperienza, provocarci, quanto quello di costringerci a riflettere, attraverso personaggi meno estremi, che sono però ancora più pericolosi. Sono più simili a noi, questo non può che farci paura.
L'introspezione veicolata da Bukowski in questa raccolta ricorda molte delle sue poesie, affilate da una tenera disillusione, che lascia alla speranza un piccolo ruolo, relegandola a qualcosa di soprassato da tempo, di surclassato, una emozione, spesso serena, di compresa sconfitta. Ma non è semplice nichilismo, tra le righe dei suoi versi l'autore riesce a spingerci verso una nuova visione, non distruttiva. La spinta è forte e fa male, ma è necessaria, almeno secondo Bukowski che la anima con i muscoli del suo stile, alternandola alla magia della meraviglia nascosta tra i rifiuti, le impercettibili luci della notte più oscura, quella che abbiamo vissuto tutti, più o meno. Tornando a Niente canzoni d'amore, incontriamo tanti personaggi che vivono costretti tra incubi e illusioni, tanti alter ego di cui l'autore muove i fili poco sottili, evidenti, cercando di dare un senso, o toglierlo del tutto, alla sue stesse esperienze. Nessuna mezza misura anche in questo caso, ma è un fatto noto per chi ha letto e amato Bukowski.
Un libro pericoloso, dicevo, e le armi sono quelle più potenti, dai ricordi dell'infanzia di Figlio del demonio, che ci costringe ricordare quel momento in cui ci sentiamo diversi, abitatori di un'altro mondo, della galassia dell'adolescenza e del confronto con un padre, con la realtà nemica che poi, lentamente ci ingoierà, per passare poi al più grande timore, la sconfitta dei nostri progetti, della nostra passeggiata di circa ottanta anni su questo pianeta, la completa solitudine di Vita di un barbone, il sole obliquo, l'abisso di polvere, svegliarsi su una panchina circondato da bambini che osservano meravigliati la carcassa di un uomo, di una rete di sogni interrotta. Ma la speranza, la vita, con Bukowski sembra poter abitare e fare foglie ovunque, il capovolgimento della realtà ci porta alla osservazione della gente normale, delusa, terrorizzata e infelice, chiusa nelle macchine a correre verso il nulla, anche con i vestiti più eleganti. Chi è davvero preso in trappola dunque?
Rimanendo in tema "barboni", caro a Bukowski, un racconto molto interessante e sempre attuale è La Vendetta dei dannati. Leggendo questo racconto che fluttua come mai nel mare della disillusione, mi è venuto in mente il film La notte dei Morti viventi di Romero, l'orda degli zombie che si organizza e vuole prendersi tutto, noi inclusi, ovviamente. I morti di Romero tornano in vita, mentre i barboni di Bukowski tornano nella realtà, emergendo dai dormitori e dagli angoli scuri con i soffitti di spazzatura. Siamo proprio certi che contineranno a essere gli esseri umani a dominare il mondo, o nel caso di questo racconto, le persone cosiddette "normali"? L'assedio dei diversi, comune denominatore delle due storie, è per il lettore l'orribile riscoperta di una ancestrale paura: la perdita del primato della nostra specie, degli uomini normali. Ricordiamo i dormitori, i manicomi, le stazioni della metropolitana d'inverno. Nel caso degli zombi di Romero, ricordiamo anche il Vietnam e i sopravvissuti tornati morti da quella assurda guerra. I rifiutati fanno paura, perchè possono diventare una enorme colonna infernale che marcia calpestando i nostri cari luoghi comuni.
Il Fantino è un racconto molto penetrante, dove l'odore della solitudine si mescola al successo dal breve respiro, a una bella casa e a una moglie profumata e elegante. In questo ritratto Bukowski riesce a fare grande rumore nel silenzio dell'indifferenza, la lotta tra due coniugi nella vasca da bagno è quanto mai efficace per rivelare tutti gli atomi e la struttura dell'inconciliabilità tra ciò che desideriamo e ciò che desidera per noi il mondo. Specchi deformanti ai quali è difficile sfuggire, ma che poi improvvisamente ci mostrano l'orrore, dietro alle nostre spalle. Volare senz'ali è un racconto che rompe con tutti gli altri, via realismo e crudezza, Bukowski è l'arciere di metafore di sogni e situazioni fantastiche dalle cellule senz'altro etiliche. Ma le radici non sono solo nell'alcol, nella delirium tremens, si trovano con le loro punte più estreme tra i capillari dei sogni al centro della terra. Riscattarsi, volare via. Cosa rappresentano quelle ali immaginarie per l'autore? Probabilmente l'imprevedibilità della vita, che aiuta a tirare avanti, ad alzarsi dai tavoli ammuffiti dei bar, schivare le braccia delle prostitute e riuscire a tornare a casa senza morire di malinconia.
Divertente il racconto Scrittori, autoironico, che forse esce di qualche metro dai binari della raccolta, dal ponte che unisce la narrativa e la poesia dell'autore, almeno come ho voluto arbitrariamente etichettare e immaginare questo lavoro. L'argomento "scrittori" torna subito dopo con Il Blocco, ma stavolta l'autore non vuole provocare i colleghi, riprende semplicemente a tessere la sua ragnatela di solitudini, che ha percorsi quasi infiniti, sebbene trasparenti. Ma osservando controluce i fili si vedono, questo è il caso del Blocco, che non parla del vissuto dello scrittore, l'autore nonè così ingenuo nel pensare di presentarci un mondo che molti non conoscono e non possono condividere, non è il suo stile, ma decide di proietta la frustrazione dalle molte facce. Quella la conosciamo tutti, anche se è vestita diversamente per ognuno di noi. Prendendo in prestito alcuni grammi di Una giorno di ordinaria follia, il protagonista del racconto offre mani ai suoi sogni, vuole toccarli, forse è solo una allucinazione in fondo, ma quando il protagonista riprende la macchina per tornare a casa ritrova se stesso, e finalmente cambia direzione. Il pensiero che Bukowski ci lascia è quello più appuntito: circondati dalla moltitudine, nel traffico, nessuno conosce il nostro mondo, non sa riconoscerci. Ce ne accorgiamo e ci stupiamo di questa disarmonia solo quando scopriamo qualcosa in più di noi stessi. Ma come fanno a non accorgersene?
Dalle corse ai cavalli, agli incontri di boxe al sesso telefonico, dalla disperata ricerca di qualcosa che offra realizzazione, o almeno qualche minuto di benessere e sopravvivenza, Niente canzoni d'amore prosegue la sua corsa lungo un corridoio interminabile, si arriva alla fine sfiniti dalla disillusione, si pensa di essere stati costretti dall'autore a sollevare il coperchio dei nostri sogni e vederne uscire migliaia di mosche, dentro c'è solo tanta bella merda, come affermerebbe l'autore. Ma questa libro poi si espande e propone una seconda lettura, senza pagine stavolta. Proprio quando siamo certi di esserci angosciati, circondati dall'odore della solitudine, più acre e insopportabile che mai, sui nostri sogni più neri spuntano delle foglie, che ci trasmettono maggiore forza per non nasconderci a noi stessi. Affrontare le debolezze, sapere che non sono solo nostre, ci dona una consapevolezza nuova, questo è il piccolo segreto di Niente canzoni d'amore. Un libro da leggere, sull'uomo qualunque e sul giorno qualunque, per confrontarci con noi stessi e scoprire, a dispetto delle insicurezze che galleggiano nelle nostre fogne più nascoste, che non siamo poi così male in fondo. Avvertiremo, alla fine, anche l'odore della speranza e la fallibilità del caso.
Dalla 4° di copertina Può capitare di richiedere “il rinnovo della patente” alla persona sbagliata, e di ritrovarsi fra le cosce di una prostituta. E di salire poi in macchina, accendere la radio, e sentire una di quelle terribili canzoni d’amore di cui è pieno il mondo. No, questo è troppo: una cosa del genere non è musica per le orecchie di chi da tempo ha archiviato certe smancerie romantiche e crede soltanto nell’istinto sessuale, nel mero bisogno impellente di liberare «quell’elettricità puzzolente che continua a mandare avanti la bruttezza della specie attraverso l’inutilità dei secoli». Ed è proprio un rabbioso senso di inutilità a legare i mondi e gli uomini né felici né infelici che popolano questo libro. Una condizione comune a cui è bene non pensare troppo. Meglio rifugiarsi in un bar caldo e rumoroso: uno sgabello libero, quattro chiacchiere col barman per sollevarsi un po’ e whisky a fiumi. Perché una sana bevuta è il solo modo per non pensare a una vita che non va da nessuna parte, fatta di lavori noiosi e stupidi, giornate sempre uguali e sesso comprato a poco prezzo. Può succedere che qualcuno tenti di dare un senso alla propria esistenza, chi mettendosi a capo di un corteo di barboni, chi scommettendo ai cavalli, chi scoprendo la scrittura come migliore reazione all’insonnia. In un modo o nell’altro, in ogni nuova storia di Charles Bukowski, la vita appare sempre come una beffarda presa in giro dei desideri umani, amara trasfigurazione di tutte le squallide realtà legate alla sua figura di bevitore incallito, di frequentatore delle corse dei cavalli e della boxe, riflesso mostruoso della vita di certe città americane. Una vita restituita dall’acre realismo del punto di vista bukowskiano, che maledice l’onnipotenza del caso e al tempo stesso vi soccombe senza opporre resistenza, e che porta in seno il nocciolo di una tenera e disperata vitalità.
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