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Che colore ha la libertà? Un applauso non vale una maglietta.

Creato il 21 maggio 2014 da Cibal @CiroBalzano26

Che colore ha la libertà? Un applauso non vale una maglietta.

C’è poco da stupirsi.
È bastato un solo evento sportivo, come spesso capita, un evento nazionale, per accendere i riflettori su problematiche che superano di gran lunga quelle calcistiche e del semplice tifo, ed interessano soprattuto le strumentalizzazioni, la disinformazione e il bagaglio pregiudiziale da cui ogni faccenda in questo belpaese attinge ogni volta.
Ma cominciamo dall’inizio e mettiamo un pò di ordine in questo fenomeno non solo italico.

Tutto è nato da una maglietta e da chi la indossava, diciamolo pure. Il pugno duro e quella dannata voglia di far vedere gli attributi dello Stato, scatenata da una maglietta e da chi la indossava, il figlio di un criminale. Troppo. Una maglietta pesante sicuramente per tutta l’opinione pubblica ma chissà quante volte è passata inosservata e nessuno ha gridato mai allo scandalo.
Eppure quella maglietta non ha sparato, anche se a quanto pare ha creato più danni della pistola che ha colpito l’ oramai celebre tifoso del Napoli, Ciro Esposito, che ancora oggi lotta per sopravvivere.
Sulla maglietta due parole semplici. Un cognome ed un aggettivo.
Ma lo scandalo che ha atterrito l’Italia intera non si è generato tanto per il nome Speziale, condannato per l’omicidio di Raciti, ma per la richiesta di “libertà” per una persona, quella persona, un altro criminale insomma. Cioè un figlio di un criminale che chiede la libertà per un altro criminale. Tombola.

Un criminale, neppure lontanamente da considerare alla stregua di una persona, che si è macchiata, così dice una sentenza e bisogna rispettarla, dell’omicidio dell’ispettore Raciti, a Catania.
Storicamente sono le famiglie dei condannati a chiedere la Libertà per i propri cari. Libertà, quella parola così semplice e leggera che assume un grande significato solo quando ti viene tolta, ma non solo.
Eppure c’è sempre qualcosa che non torna, qualcosa di imprevisto in ogni situazione, specie in questa. In genere sono gli avvocati a catturare il momento giusto, per inserirsi nella falla del sistema, come degli hacker, che trovano una porta aperta nei minuscoli, teneri cavilli della giustizia e vi si infilano, sfaldando una struttura pensata per reggere ad ogni urto.

Ed allora mi domando… Ma la Libertà si può chiedere?

Allora perché la libertà non si può chiedere?

Non entro nel merito di un processo ma nel merito di una richiesta che a mio avviso non ha nulla di eversivo.
Ancora una risposta non la riesco a dare, anche perché questo è il paese dei controsensi, dove un condannato può entrare tranquillamente nel Parlamento a dialogare con l’illustrissimo garante della Costituzione senza batter ciglio.

Allora perché questa libertà non si può chiedere?

Eppure per anni, ed ancora tuttora nel nostro paese, una scena simile l’ho già intravista, e la ricordo benissimo. Certo, certo la libertà si può chiedere ma dipende dal nome e soprattutto dal cognome che porti.
Poi ad un certo punto ti ritrovi a dover accettare, a malincuore, di far parte del circo mediatico a tua insaputa, perché una parte dell’Italia, quella unita per intenderci, viene ogni giorno tempestata di notizie dopate dagli esperti del settore, notizie buone solo ad alimentare il bagaglio pregiudiziale che dalla culla alla tomba accompagna ogni cittadino del Sud.
Certo, se la verità fosse un giocattolo, come a quanto pare sta diventando, ognuno avrebbe il diritto di perderci tempo con il suo uso, quindi girarlo e rigirarlo, fino a quando il giocattolo si rompe.

Ebbene il giocattolo si è rotto perché non si è mai saputo, e mai voluto, ambire all’allineamento alla realtà dei fatti come peraltro prevede una deontologia che lascia poco adito alle interpretazioni. Allora succede che una parte del paese, spesso vestita degli abiti della responsabilità morale dinanzi all’altra parte del paese, plaude all’entrata di assassini certi, senza ombra di dubbio, di un povero ragazzo (Federico Aldrovandi) , senza nome quella sera, colpevole di essersi trovato nel momento sbagliato e nel posto sbagliato. Vilipendio, anche e soprattutto, del ricordo e della giustizia. Però non è reato. Il reato è nel chiedere la giustizia per Speziale, colpevole di aver, secondo la sentenza ma non per chi chiede la revisione di quel processo, ucciso il commissario Raciti, mentre ricopriva il suo ruolo, e dopo tranquillamente montarci un caso, come sempre, per vendere il solito odio verso un intero popolo ed una secolare cultura.
Made in Italy dal 1861.

Allora?
Che colore ha la libertà?



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