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Ci sono ambizioni e ambizioni

Da Marcofre

Lo scrittore, diceva la zia Flannery (O’ Connor), è colui che ha ricevuto un talento per fare qualcosa. Il problema come si intuisce, è che il talento non è affare di tutti, e questo mette di malumore tante persone. Certo, dovrei pure spiegare cosa diavolo è questo talento, ma sono quasi convinto che la sola affermazione “Ci vuole il talento, il resto sono chiacchiere”, crei un discreto numero di nemici a chi la pronuncia.

Il bello è che le Olimpiadi sono di fatto una formidabile macchina di “discriminazione”, e non è affatto l’unica; però gli stadi sono pieni di persone che applaudono il primo, e ignorano la fatica del terzo, del quinto arrivato. Forse questi è più simpatico di chi si è classificato primo, ha persino faticato di più: non importa. Sul podio saranno solo in tre, gli altri torneranno da dove sono venuti e nessuno baderà più a loro. Non è inumano? Discriminatorio?

Se però affermi che il talento è ferocemente antidemocratico, ti guardano storto. È come se nella favola di Cenerentola entrasse il dottor Hannibal Lecter.

Magari accadesse: gli darebbe un po’ di sprint.

Però torniamo per un attimo al talento. Si dice che quel certo autore ha il talento per scrivere libri che vendono milioni di copie, oppure è capace di andare incontro al gusto del pubblico. Non sottovaluterei affatto queste capacità, perché ad esempio l’ottimo Charles Dickens agiva in quella maniera. Quindi è meglio scendere dal piedistallo e guardare in faccia alla realtà.

Ma proprio perché è necessario fare i conti con la realtà, le domande restano, e a parer mio appaiono interessanti. Anche perché al di là della semplificazione (“Dickens scriveva per la pancia del pubblico”) c’è da riflettere parecchio.

Sul serio il pubblico ha un gusto? E se io scrivo me ne devo preoccupare?

La mia idea è che il pubblico abbia gusti burini. Quindi è bene preoccuparsene, ma nemmeno troppo. Questa entità astratta non riesce a distinguere la differenza tra bene e prodotto, e guarda al libro come a una scatola di biscotti: un compagno con il quale trascorrere qualche momento felice. Per il pubblico chi scrive è un bizzarro animale, come la tigre siberiana allo zoo: quindi vi si reca, la guarda, ma di fatto considera l’essere al di là delle robuste sbarre, un estraneo. Perché fa parte di un habitat distante.

In parte la colpa è di chi scrive. Perché vende aria, non storie. Inoltre, tende a rafforzare l’idea che uno scrittore è una creatura che conduce una vita differente. Perciò se costui incontra il suo pubblico, deve per forza soddisfare le aspettative che ha creato. Quali?

La mancanza di ambizioni in chi scrive, conduce a scrivere storie che vanno in una precisa direzione: soddisfare le attese del pubblico. Mentre è possibile avere ambizioni, e soddisfare le attese del pubblico (ecco perché Dickens è un classico), la mancanza delle prime conduce da nessuna parte.

Ci sono ambizioni e ambizioni. Quelle di un autore dovrebbero avere a che fare con l’arte, e questo vuol dire procedere in un certo modo. Ovvio che il pubblico si smascelli dalle risate quando sente questo genere di discorsi, ma  non è impossibile riuscire nell’impresa. Uno scrittore come Dostoevskij conosceva bene i lettori, eppure scriveva quello che sappiamo, e riusciva a vendere non poco.

Dickens riempiva i suoi romanzi di vecchi svitati e bambini piagnoni: basta leggere “Casa desolata” per capire che cosa avesse in mente per davvero.

Così torniamo a parlare del talento. Che non è una cosa che permette di fare quello che si vuole. Spesso si ritiene che chi lo possieda, possa qualunque cosa, sia senza limiti e possa spaziare. In realtà i limiti ci sono eccome, e resteranno per sempre. Non è un problema, ma di certo rappresenta un formidabile alibi quando non si possiede talento, e allora si parla solo dei limiti.

Se c’è talento e ambizione (cioè arte), il limite rimane ma viene superato, non è più un ostacolo, ma è un’opportunità per rendere ogni parola perfetta, o quasi.


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