Magazine Diario personale

Come tutto ebbe inizio - Parte settima

Da Romina @CodicediHodgkin
domenica, 29 maggio 2011

Come tutto ebbe inizio - Parte settima

La prima chemio non si scorda mai.
Non che le altre undici che son seguite me le sia dimenticate, intesi, ma la prima la ricordo come fosse stata ieri.
Era un lunedì mattina di metà settembre. Insieme all'ematologa avevamo deciso di fare chemio il lunedì, così potevo essere relativamente in forma per il week-end.
La notte quasi non chiusi occhio. La storia era sempre la stessa: la metà razionale di me sapeva che era ora di cominciare le cure, che tanto non c'era altra alternativa e quindi tanto valeva iniziare. La parte più emotiva era costernata: allora era vero che dovevo fare chemo!

La mattina seguente, io e mamma ci svegliammo prestissimo. Andare a fare chemio era un discreto tour de force: dovevamo alzarci all'alba per poter essere in ospedale prima delle 7:00. Bisognava arrivare molto presto sia per trovare parcheggio, sia per poter prendere il numeretto per fare l'emocromo. Un emocromo accettabile era la condizione essenziale per poter fare chemio, se quello non era a posto, dritti a casa! Era importante arrivare presto, perchè così sarei stata tra i primi a fare l'emocromo e non avrei dovuto aspettare molto per poter fare la chemio. Sfortunatamente, in ospedale non c'era una saletta prelievi a uso e consumo esclusivo di chi faceva chemio. Chiunque dovesse fare esami del sangue al reparto di ematologia passava di là, quindi per chi faceva chemio era indispensabile arrivare prima degli altri per non aspettare anche due ore per fare l'emocromo. Arrivare, per dire, alle 7:30 in ospedale poteva significare fare l'emocromo alle 8:45/9:00 e entrare in day-hospital per le terapie alle 11:30/12:00. Non era cosa fattibile. Essere mattinieri era indispensabile.

Mi svegliai prestissimo e, non so perchè, decisi di fare quello che avrei fatto se, invece di andare a fare chemioterapia, fossi andata in facoltà: mi truccai (ricordate? Avevo comprato un mucchio di trucchi nuovi per coccolarmi un pò!) e scelsi i miei vestiti con cura. Poi accesi il cellulare e trovai non so quanti sms di amici e parenti che mi davano l'in bocca al lupo.

Quando io e mamma arrivammo in ospedale, ci facemmo spiegare a grandi linee come funzionava la faccenda dalle ragazze della reception. Mi misi seduta su una sedia e aspettai il mio turno per il prelievo. Ancora un pò di attesa e poi, una voce dall'interfono disse "la Signora Fantusi è attesa in day hospital".
Mamma saltò in piedi e disse "andiamo, tocca a noi!"
e io "noi?"
"si, ci hanno chiamato!"
"no, MI hanno chiamato. Vado io, tu aspetta qui."
"ma falla finita, andiamo"

In quel momento, la mia ematologa, la Dottoressa E. uscì e mi venne a prendere. Con lei c'era una sua collega che conoscevo già, era la dottoressa quando ero ricoverata mi comunicò che le biopsie non erano state sufficienti e che dovevo essere trasferita in chirurgia. E'anche quella che si prese la briga di fare una telefonatina al vetriolo al mio medico di base consigliandoli di guardare "Caro diario" di Moretti. Mi chiese come stavo. La maschera da super-Romy si sciolse e mi vennero le lacrime agli occhi. Lei mi guardò e disse "Beh, che succede? Non si piange. Le ragazze grandi non piangono!". Io le avrei voluto far notare che non ero una ragazza grande, che avevo 21 anni e che in quel momento mi sembrava di averne 6, ma lei mi guardava con una tale dolcezza che non aprii bocca per non scoppiare a piangere. No-no. Aveva ragione. Le ragazze grandi non piangono. Non era vero e lo sapevo, però in quel momento mi aiutò a farmi passare il magone.

Entrai nella saletta del day hospital. Sei letti e quattro poltrone. Venni fatta accomodare su una poltrona scomodissima, scivolosa e mi guardai intorno. C'era una signora anziana che, invasatissima, diceva di aver visto Padre Pio. Poi c'era un ragazzo (linfoma non hodgkin) che era lì per la sua ultima chemio. Mi sembrava di essere ad uno strano primo giorno di scuola in cui alcuni erano già avanti col programma e altri, come me, non sapevano neanche leggere.

Le infermiere mi circondarono e concessero a mamma di stare ancora qualche momento con me. Il momento era arrivato. L'ago venne infilato nell'incavo del mio gomito sinistro. A tutt'oggi ho una sorta di tatuaggio in quel punto. Il segno lasciato dai cerotti. Tre linee scure. Una volta partita la flebo, mamma venne fatta uscire e tornò in sala d'attesa. L'infermiera disse che il farmaco poteva bruciare quindi non mi dovevo preoccupare. Non bruciò. Dopo un pò arrivò la mia ematologa e mi diede una gran notiziona: dato che la prima chemio non era abbastanza come esperienza, una volta finite le flebo sarei andata in sala operatoria a inserire il port-a-cat.
Rimasi un pò interdetta. Non che non lo volessi mettere, sia chiaro, ma subito dopo la prima chemio mi sembrava eccessivo, tanto più che lo ero venuta a sapere in quel momento. Vabbè, oramai ero in ballo e dovevo ballare, che alternative avevo?

La chemio filò liscia. Venni coccolata e riempita di domande dalle altre 9 persone che erano lì con me. In quel momento ero la più giovane in assoluto a fare chemio lì in ematologia e quindi divenni immediatamente la mascotte. Le flebo si susseguirono senza problemi. Non ebbi alcun fastidio. Niente nausea, niente bruciore.
Ad un tratto l'ematologa tornò con uno strano cappuccio blu coperto di brina che mi piazzò in testa senza tanti complimenti. Era ghiacciato! Quello fu il mio primo incontro con la cuffia fredda. E'un sistema piuttosto simpatico per evitare o comunque contenere la caduta dei capelli. Il principio è questo: nel momento in cui parte la "flebo rossa" (il farmaco responsabile della caduta dei capelli) viene calato in testa questo cappuccio gelato. Lo scopo è congelare i bulbi dei capelli, che così non vengono irrorati troppo dal sangue che trasporta il farmaco.

Mezz'ora dopo aver tolto l'ago, ero sulla strada per la sala operatoria. Avere il padre del mio ex che lavorava in ospedale mi ha portato diversi vantaggi. Tipo poter mettere il port, che non a tutti mettono. Il port è un dispositivo atto a salvare le vene di chi fa chemio, che altrimenti si sclerotizzano, diventano durissime, difficili da bucare. E quando, tra flebo e punture varie, si subiscono vari buchi a settimana, avere delle vene sane è importante. Ho visto gente fare i prelievi dai punti più impensati perchè le vene delle braccia erano andate.

Un port è fatto così:

Come tutto ebbe inizio - Parte settima

Si fa un incisione appena sotto la clavicola sinistra, si infila il tubicino nella vena cava superiore e si posiziona quella specie di bottoncino (dove si infila l'ago) sotto la clavicola. Lo scopo è quello di far passare i farmaci nel tubicino piuttosto che in vena.
Prima di arrivare in sala operatoria, rischiai l'infarto. Andai a fare la pipì (mi era stato ordinato di bere tantissimo e di fare tantissima pipì) e rimasi sconcertata nel vedere la pipì rossa. Non rosata, proprio rossa. Poi mi ricordai che una delle flebo era di quel colore e sospettai che potesse dipendere da quello. Chiesi conferma: si, la prima pipì post-chemio è sempre rossa se si prende quel farmaco.

Mi legarono al lettino e iniziarono a lavorare. Una delle infermiere mi guardò e mi disse:
"Ma tu non eri qui una settimana fa per una mediastinoscopia?"
"Si, come ha fatto a ricordarsi di me?!"
"Io non dimentico mai un mediastino!"
Speravo che fosse speciale il mio mediastino, invece era solo uno dei tanti, ohibò!

Chiacchierai tutto il tempo con l'anestesista e le infermiere. Fu un pò fastidioso. Dopo aver inserito il port, mi misero un bel cerotto e mi assicurarono CHE IL PORT SAREBBE STATO ASSOLUTAMENTE INVISIBILE (questo ricordatevolo bene..).
Alla fine, in pieno pomeriggio, potei tornare a casa. Mamma continuava a guardarmi.
"Come ti senti?"
"Bene!"
"Sicura?"
"Si, sono solo stanca, troppe emozioni!"
"Si, ok, ma fisicamente?"
"Bene, solo una strana sensazione allo stomaco..."
"Ti fa male?"
"No, non è che fa male...è che...è che...mamma, lo sai che c'è? E' fame!!"
"Fame? Come fai ad avere fame?"
"E come vuoi che faccia? Sono digiuna da ieri sera!"

Passammo a trovare mio padre al lavoro, fu piuttosto sopreso di vedermi. Rimanemmo là qualche minuto (il tempo di sbafarmi un tramezzino) e poi tornammo a casa: ero stanca e volevo stendermi, ma nel complesso stavo bene.
Avevo solo un pò di ansia perchè pensavo che da un momento all'altro avrei iniziato a vomitare o stare male. Non accadde.
La sera ricordo ancora che cenai con una salsiccia arrosto e insalata. Ci tengo a precisare che mamma non voleva assolutamente che magiassi la salsiccia. Per me c'era insalata e non ricordo cos'altro. Dovevo stare leggera. Leggera? Io? Ma anche no, grazie. Leggeri tienici i malati, non me.
Guardai mamma con gli occhioni da Gatto con gli Stivali di Shreck e sfoderai quel che mi ha tanto aiutato durante la chemio: la faccia da culo. Riuscii a fare una cena come si deve, a base di farmaci, carne e insalata. I miei erano sbalorditi: stavo bene!

Crollai addormentata prima ancora che la mia testa toccasse il cuscino. La mattina seguente mi svegliai tardissimo. Mi sentivo come se avessi fatto la maratona: l'adrenalina era scesa e io stanchissima, ma stavo bene.
Sapevo che col passare del tempo le chemio sarebbero state più difficili da smaltire, ma intanto la prima era passata e io non avevo avuto problemi. Ne mancavano ancora 11.
Ma questa è un'altra storia...




 


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