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Creare storie efficaci è come pedalare in salita

Da Marcofre

C’è questo racconto di Raymond Carver racchiuso nella raccolta “Vuoi star zitta per favore?” edita da Minimum Fax (sì, sono riuscito a procurarmene una copia, di fatto il libro è fuori catalogo). Si intitola “Segni” e narra di una coppia che si reca al ristorante. È gestito da Aldo, quindi si tratta di un locale italiano.
Mi pare che sia l’esempio migliore per spiegare come certa narrativa della vita quotidiana, possa nascondere e parlare a livelli molto più alti (o profondi?) di quanto appaia.

Sono solo sette pagine. I due parlano. Si parlano. Nient’altro.
Nient’altro?
Non succede niente di particolare o eccezionale. Magari ci si attenderebbe una rapina, una lite, uno scontro con il personale; anche se c’è un cameriere che irrita il marito.

Secondo me chi scrive non ha il problema dell’ispirazione. Basta affacciarsi alla finestra e guardare. La fatica viene dopo, quando è necessario creare da quello che vediamo, una storia che vada oltre forme e apparenze.
Alla ricerca del livello nascosto.

Noi della realtà scorgiamo la superficie, e ci accontentiamo. Perché non abbiamo tempo: non abbiamo MAI tempo.
Poi vogliamo con forza che pure le storie siano qualcosa di analogo; perché non abbiamo tempo e non vogliamo sprecarlo alla ricerca di significati nascosti. Orsù, qualcosa che distragga. Che rilassi.

Un po’ come comprare una bicicletta e pedalare sempre e solo in piano. Possiamo dirci “sportivi”, amanti della natura, e via discorrendo. Però è nella salita, nella fatica che spreme i muscoli sino a farli bruciare di dolore che si gioca la partita vera.

La sfida di un autore che desideri creare storie efficaci e di valore è… pedalare in salita. Vale a dire prendere quello che vede (una frase, un piccolo evento che scorge, magari nel parcheggio di un supermercato), e dargli profondità.
La reazione di aspiranti autori, e lettori, di fronte alla prospettiva di dare profondità a quanto si scrive, li fa battere in ritirata.

“Ma non è possibile restare in superficie senza tutte queste dotte disquisizioni sulla profondità?”

Certo che è possibile. Lo fanno in tanti, e spesso sono baciati dal successo, quello con la esse maiuscola.
D’altra parte, un autore che desideri confezionare qualcosa di artistico, come Raymond Carver, non si accontenterà di una storia con una coppia che va a cenare in un ristorante italiano. Lavorerà di cesello per mostrare come dietro le intenzioni:

La prima della follie che Wayne e Caroline avevano in programma per quella serata (…)

si nasconda qualcosa di differente:

“Ah, piantala!”, disse lei. “Non potresti parlare d’altro?”

Una storia inconcludente? Questa è una delle tante accuse che si fanno a Carver. Il racconto termina con la coppia che se ne va a casa dopo aver cenato. Se si aspetta il colpo di coda, la rivelazione, il “Bam!” che fa sobbalzare sulla sedia si resterà delusi. Perciò è bene che lo sappiate. Non mi offendo se dite che Carver lo trovate insopportabile, sul serio. De gustibus…

Però immagino che si possa raccontare di tutto, delle cose più banali, purché sia ben chiaro nella testa dell’autore che la banalità è lo schermo dietro il quale scorre il mistero. Non deve essere qualcosa che rimette in discussione la concezione del mondo così come l’abbiamo conosciuta.

Il mistero dell’uomo: è tutto lì. Svelare le ruggini, le piccole frizioni, e consegnare qualcosa in grado di tenere banco anche dopo che la lettura si è conclusa, e il libro si è chiuso.


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