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Dallo spazio non si gode della vista migliore

Creato il 12 dicembre 2013 da Media Inaf

Recenti studi hanno dimostrato che sono gli occhi, oltre alle ossa e al tessuto muscolare, a risentire maggiormente dello stress di una lunga permanenza nello spazio. I ricercatori hanno realizzato esperimenti su topi da laboratorio mandati in orbita con due shuttle per studiare i danni alla retina e al sistema nervoso. Allo studio possibili rimedi utili anche sulla Terra.

di Eleonora Ferroni 66064_web

L’ingegnere Akihiko Hoshide della Japan Aerospace Exploration Agency che esegue l’imaging ad ultrasuoni al suo occhio nel laboratorio Columbus della Stazione Spaziale Internazionale. Crediti: Nasa

Ormai è noto che fra le conseguenze fisiologiche e i disagi più seri che riscontrano gli astronauti dopo anche solo due settimane di missione nello spazio ci sono i problemi alla vista. Oltre a diversi effetti su ossa e tessuto muscolare, sembra proprio che siano gli occhi a risentire pesantemente della permanenza, ad esempio, sulla Stazione spaziale internazionale (i problemi più evidenti si riscontrano dopo lunghe missioni nel 60% degli astronauti).

Due studi recenti hanno esaminato nello specifico i cambiamenti e lo stress che subiscono gli occhi in condizioni di microgravità orbitale, in modo da trovare possibili rimedi anche non invasivi una volta tornati a terra. Per questo alcuni topi da laboratorio sono stati trasportati nello spazio a bordo di due shuttle, con le missioni STS-133 nel marzo 2011 e STS-135 nel luglio 2011, per testare e studiare come lo spazio influisce su muscoli e ossa. Due gruppi di ricerca hanno utilizzato il tessuto oculare dai topi per fornire la prima prova diretta che il volo spaziale provoca danni a livello cellulare anche a lungo termine.

Susanna Zanello, ricercatrice del Johnson Space Center della NASA di Houston, ha analizzato il tessuto oculare dei topi del primo volo per studiare cambiamenti al livello genetico della retina, cioè il tessuto sensoriale nella parte posteriore dell’occhio. I risultati della ricerca sono stati pubblicati nello studio Spaceflight Effects and Molecular Responses in the Mouse Eye: Preliminary Observations after Shuttle Mission STS-133, pubblicato su Gravitational and Space Research. I dati del secondo volo sono stati, invece, analizzati da Xiao W. Mao, medico e ricercatrice presso la Loma Linda University in California, e dai suoi colleghi e pubblicati in un altro studio “Spaceflight Environment Induces Mitochondrial Oxidative Damage in Ocular Tissue“, pubblicato su Radiation Research.

Entrambe le ricerche mostrano uno stress ossidativo dei bulbi oculari, vale a dire il rapido invecchiamento dell’occhio. I voli nello spazio, infatti, sottopongono gli occhi degli astronauti e, nel caso dei test, dei topi a radiazioni violente, ipotermia, ipossia e variazioni di gravità, responsabili del danno tissutale. Lo stress ossidativo riflette uno squilibrio tra l’ossigeno reattivo generato dal normale metabolismo cellulare e la capacità della cellula di gestire i sottoprodotti tossici. Cosa accade? L’iperproduzione e il successivo accumulo di radicali liberi nell’organismo, in assenza di una adeguata capacità difensiva (il corpo è sottoposto a grande stress nello spazio), comporta l’insorgere di danni ossidativi a carico di quasi tutti i costituenti del corpo. Cosa vuol dire? L’organismo invecchia molto più velocemente nello spazio rispetto a quanto accade stando sulla Terra. Gli esperti hanno notato cambiamenti a livello genetico, del DNA, e a livello cellulare: i mitocondri, che convertono l’ossigeno e le sostanze nutrienti in energia, sono particolarmente sensibili allo stress ossidativo e, quindi, agli effetti della microgravità e alle radiazioni nello spazio.

La retina di un topo prima e dopo il volo nello spazio

La retina di un topo prima e dopo il volo nello spazio

“Abbiamo analizzato 84 geni e abbiamo riscontrato che 9 di questi hanno riportato cambiamenti gravi e significativi associati con danni all’organismo dei topi”, ha detto Mao. I cambiamenti si sono verificati dopo una breve permanenza nello spazio, quindi potrebbero essere reversibili, ma ancora i dati non lo confermano. Lo studio della Zanello ha riportato la presenza di due indicatori di danno del nervo ottico, la proteina fibrillare acida della glia (GFAP) e il betamiloide. La GFAP è stata trovata in quantità elevata a causa dello stress e dell’infiammazione del sistema nervoso centrale dopo la lesione della retina. Gli studi hanno trovato, invece, il betamiloide nel tessuto dopo la lesione traumatica del cervello.

Nuove ricerche saranno necessarie per confermare i risultati ottenuti in questi due anni di studi. In futuro verranno pensate anche soluzioni non invasive per l’uomo, come diete particolari o medicine da assumere in volo, in alternativa a interventi laser e chirurgici. Futuri risultati, ovviamente, saranno utili anche sulla Terra, per malattie gravi come il glaucoma.

Fonte: Media INAF | Scritto da Eleonora Ferroni



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