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Dove Cristo non è arrivato

Creato il 25 luglio 2013 da Lundici @lundici_it
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Negli anni liceali, mi proposi alla prof di Italiano quale portatrice sana di film di rilievo della cinematografia italiana per dare un senso tangibile e visibile ai grandi classici dello scontato programma scolastico di allora, per togliere tempo all’angoscia di interrogazioni imminenti e dare respiro a me e ai miei sconsolati compagni che l’ardore giovanile spingeva verso lidi più leggeri e meno nefasti.

In questo ruolo, vidi “Cristo si è fermato ad Eboli” negli anni in cui incominciavo a capire intimamente quanto l’identità, individuale, sociale e storica, di un uomo passi dalla fedeltà alle proprie idee.

La vicenda del confino di Carlo Levi, la sua esperienza in un sud atavico e sprofondato nella miseria senza speranza e nella ineluttabilità della sorte mi colpirono profondamente, seppure nei limiti di un’adolescenza ancora attenta a una visione ampia della storia, quella visione che si ancora agli Stati, alle forme di governo, alla politica di un Paese, alle storture di un sistema fondato sulla repressione e la paura, sulla convinzione del controllo di un popolo attraverso l’ignoranza mantenuta o diffusa con l’impedita circolazione delle idee.

Gli anni trascorsi e la distanza che la maturità porta con sé, le esperienze vissute, inclusa la conoscenza di un’altra vita possibile lontana dalle origini meridionali, mi hanno posto fra le mani e imposto una diversa lettura del film nel ritorno al sud in una notte d’estate del 2013, solo fisicamente trascorsa alle spalle del Nettuno bolognese.

Dove Cristo non è arrivato

“Cristo si è fermato a Eboli” è un film del 1979 diretto da Francesco Rosi, tratto dal romanzo omonimo di Carlo Levi e interpretato da Gian Maria Volonté (nella foto)

Avevo letto il romanzo di Carlo Levi, e visto il film per la prima volta, in un’era geologica in cui credevo che quello sguardo carico di stupore e umanità, di incredulità e “pietas”, che Levi e Volontè rivolgono a quei volti scavati dalla fatica del lavoro tra i campi e dal rinnegamento della loro fisica esistenza in nome di un compiaciuto servilismo alla madre terra che tutto concede e tutto toglie, fosse quello di un uomo del nord verso un sud dove la storia e il senso di appartenenza allo Stato ancora non avevano dato identità ai miei conterranei.

Ancora, appunto. Quell’”ancora” che, in piazza Maggiore a Bologna, mi sono resa conto esistere nell’attualità di un Paese ancora diviso in due e nelle diffuse risate di un nord che beatamente si abbarbica all’idea che “Cristo si è fermato ad Eboli” sia solo un bel documentario della nostra storia.

La terra che frana per l’assenza di alberi e il rischio, che porta con sé, di travolgere case arroccate e abusive, le vite chiuse nel ripetersi eterno di abitudini e usanze, l’ostilità verso il nuovo e il diverso, la teatralità greca delle pie donne che mimano il dolore per la morte, il lutto esibito e l’esigenza imposta del rispetto verso la condizione di perdita, la violenza delle mani nel togliere la vita al capro espiatorio di turno, la manifestazione violenta del possesso delle donne, l’idea malefica della donna che sceglie per sé, quando il sé e la drammaturgia dell’ordine fasullo familiare non coincidono, la vita che inizia e finisce nella dimensione atemporale di un paese dove né la storia né Cristo hanno avuto accesso: questo era ed è ancora, con forme rinnovate e in sembianze differenti, la realtà della gente che in Calabria, come in Lucania, in Sicilia e in Puglia, ancora attende un segno divino di speranza che dall’insegnamento di Cristo non passa.

Cristo è segno umano di presenza del divino, è l’agire in funzione della trasformazione, è toccare il diverso e farsene contaminare senza perdersi, è libertà scevra da paure, è convivialità cercata in nome di una ricchezza di spirito che passa dalle conoscenze e dallo scambio.

Il sud spera e lì si ferma. Quello stesso sud che non vede Cristo in sé.

Dove Cristo non è arrivato
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