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Ennio Abate Sul femminismo “amorevole”

Da Ennioabate
we_can_do_it___remastered_by_thedrifterwithin-d56rqh1Questa lettera aperta a margine dei commenti sulla conferenza di Lea Melandri(qui) non è una semplice provocazione o dotta elucubrazione, ma un invito a non farla facile su amore e violenza. [E.A.]

 

Care amiche,
sarò franco e diretto. Ma cos’è – alla nostra età – tutta questa recita: amiamoci! amiamoci! Come se fossimo nel fiore della giovinezza e in una corte del Rinascimento. Mi spiace guastare la festa, ma voi sottovalutate e dimenticate com’è il mondo e i rapporti conflittuali  e i mille condizionamenti in cui siamo costretti a vivere e miracolosamente ad amare (quando si riesce). Bastasse il desiderio! Freud che se ne intendeva mi pare che paragonasse uomo e donna a due ricci che a fatica riuscivano a trovare la posizione giusta per non ferirsi con i loro aculei. Spero che questa non sia una discussione per sole donne e non continui su questa falsariga. E perciò qui di seguito dico quello che penso sulla questione.Mi pare arduo che il discorso della Melandri possa essere fatto da un uomo (come auspica Emilia [Banfi]). Non è possibile. Non è possibile questa conciliazione o pacificazione paradisiaca, che sta al fondo delle sue parole. Non per cattiveria degli uomini. O per un loro risentimento, ora che si stanno accorgendo a loro spese di essere stati spodestati (in parte, ma sempre con maggiore frequenza in  varie società del pianeta) da posizioni prima indiscusse di potere e da quel “sogno d’amore”, che da secoli ha velato differenze e gerarchie e ha trovato nelle stesse donne assenso e complicità. (E qui la poesia, fatta soprattutto dagli uni ma anche dalle altre – la più idealistica, non quella più materialistica e realistica che non ha mai scordato la tensione persistente tra i sessi – ha le sue “responsabilità”, al pari di quelle attribuibili alla religione, alla filosofia, ecc.). Ma più semplicemente perché il femminismo – anche quello intelligente alla Lea Melandri – ha sì contestato e in parte distrutto quel “sogno d’amore”, e svelato «di che lagrime gronda e di che sangue», e promosso  leggi più favorevoli alle donne, e imposto nell’opinione pubblica  modi politically correct (in verità solo a livello simbolico e di linguaggio; e perciò un po’ ipocriti e parziali, anche quando fossero sinceri), ma non ha saputo o non ha potuto indicare una nuova «visione» non distorta o meno distorta dell’amore, una sorta di spiaggia dove approdare uscendo dal mare tempestoso in cui s’agitano – facendosi molto male a vicenda – entrambi i sessi.
Qualche anno fa, in «Donne seni petrosi»  (qui dei commenti), ho spiegato – dal mio punto di vista  – il perché di questo risultato della lotta politica degli anni Settanta. Che può essere  giudicato, a seconda dei punti di vista, un mezzo fallimento o un mezzo passo avanti. Riassumendo la mia tesi era questa: il femminismo, ramo cresciuto sul tronco del movimento socialista e comunista che ha attraversato il Novecento, s’è rinsecchito e ha cominciato a marcire perché s’è rinsecchito ed è marcito quel tronco. (Nella sua conferenza la Melandri sorvola su questo punto cruciale. Eppure a me pare che senza quell’humus politico tendenzialmente democratico, anche se patriarcale, il femminismo storico come movimento di massa non sarebbe mai venuto fuori). Ma dobbiamo essere ancora più precisi sui suoi sviluppi successivi, che non sono affatto in continuità con  il femminismo degli anni Settanta. Le generazioni femministe successive – le nipotine – hanno solo in minima parte proseguito sulla strada delle mamme o zie, che ancora agivano in una logica vagamente anticapitalistica. Hanno invece mutato pelle, poggiandosi su un pensiero pragmatico/psicanalitico fortemente americanizzato; e dunque diverso da quello otto-novecentesco dei Nietzsche, dei Freud a cui si appellavano le sorelle maggiori come la Muraro. E hanno puntato contro il “miserabilismo di sinistra” (così scrivevano) con  grinta  a carriere elitarie. In concorrenza/complicità con gli uomini di potere. E diventando, pur esse, donne di potere. In modi sconcertanti non solo per le madri storiche come la Melandri, ma anche per chi col femminismo simpatizzò. Hanno cioè seguito una strada di trasformazione/trasformismo non dissimile da quella che ha disastrosamente portato il PCI a trasformarsi in DS e poi in PD.

Alla luce di questi cenni storici si dovrebbero valutare con più rigore certi concetti usati dal femminismo storico e da quello nuovo; e ripresi – acriticamente a mio parere – anche nei vostri commenti.
«La libertà femminile» non è che «viene vista come una minaccia dall’uomo». Non è che, come scrive Annamaria [Locatelli], «l’uomo oggi fatica ad allontanarsi dal ruolo a lui riservato dal sistema patriarcale perché crede di perdere dei “privilegi”, si sente in una posizione perdente». Deve essere chiara una cosa. «La libertà femminile» è pensata al femminile, e cioè staccata  da quella che prima era intesa come libertà socialista o comunista che avrebbe dovuto realizzarsi per tutti/tutte (per il «genere umano»). E’ stata “partigiana” in partenza. O, come hanno sostenuto alcune femministe storiche (la Muraro, ad es.), essendo sostanza autosufficiente (capace cioè di alimentare di per sé un altro tipo di civiltà, cancellando il carattere patriarcale di quella perpetuatosi fino ad oggi), è libertà che sostituirebbe il Principio femminile al Principio maschile.   Non contempla più la libertà dell’altra parte, quella maschile. Al massimo fagocita in sé la dimensione maschile o la respinge nel pozzo nero del patriarcato oscurantista di cui sbarazzarsi. (Non discuto qui se questo pensiero al femminile sia  fondato o poco fondato).
Sia pur teoricamente, come uomini (o maschi) siamo – dobbiamo dircelo – posti di fronte al classico «mors tua, vita mea». Perciò si può  anche sostenere che «la libertà della donna è una vera conquista». Ma per le donne ( anzi -  preciserò poi – per alcuni settori di donne);  ma è troppo facile dire che tale conquista non costituisca un «limite per l’altro (il compagno, inteso nell’accezione più ampia)», come scrive Giuseppina [Di Leo].

Sul piano storico dobbiamo sapere che ogni “conquista” implica dei vincitori e dei vinti. Per fare degli esempi: se nelle società è prevalsa l’industrializzazione, a farne le spese è stato il mondo contadino (come prima quello dei pastori e dei nomadi, quando sono sorte le civiltà stanziali). Non si può negarlo o addolcire la pillola. Se nei secoli, in quasi tutte le società, ha prevalso il patriarcato, a farne le spese sono state le donne. Anche questo non si può negarlo. E allora, in teoria, se dovesse prevalere il matriarcato (o, chiamiamolo così, il “donnato”), a farne le spese saranno gli uomini. Il motto di Hannah Arendt riportato da Giuseppina [Di Leo] (“ogni castrazione del potere è un aperto invito alla violenza”) ha un senso preciso. Ma varrebbe anche nel caso di un predominio femminile, che per forza di cosa, per affermarsi come potere, dovrà “castrare” quello maschile. Questa è la prospettiva principale  del femminismo radicale.  Che ha buoni fondamenti storici. Anche le donne – come tutti i soggetti che si  sono ribellati – si troveranno di fronte all’aut aut manzoniano:«far torto o patirlo». E se vogliono vincere, conquistare pienamente la loro «libertà femminile», dovranno far torto agli uomini, a questi uomini costruitisi storicamente su principi patriarcali.

Di fronte al nocciolo duro del conflitto frontale le proposte di «movimenti come quello omosessuale e di gruppi come “Plurale maschile”, che non si identificano con il modello maschile patriarcale, anzi pensano di essere stati troppo a lungo defraudati di quegli aspetti femminili che sono tutt’altro che estranei all’uomo» (Annamaria [Locatelli]) mi paiono diversivi o soluzioni intermedie (o “di compromesso”). Delineano soluzioni ambigue. Da valutare comunque con attenzione. Ma, a mio parere, rischiano di eludere il problema della violenza nei rapporti umani, che non è riconducibile solo a quella che la Melandri definisce l’”infamia originaria” (il patriarcato). Inoltre non è che nei rapporti omosessuali l’elemento di violenza scompaia miracolosamente. Né credo che la crisi (indubbia) del «modello maschile patriarcale» (almeno nelle società industrializzate e modernizzate) si risolva con il recupero «di quegli aspetti femminili che sono tutt’altro che estranei all’uomo». (Verrebbe da chiedere: A quale uomo? A quello storico o a quello ideale? E quali aspetti femminili si possono innestare in un uomo storico, se uomo dovrebbe restare in qualche modo?).

Insomma, il problema della libertà andrebbe indagato più a fondo. La “coperta della libertà”  davvero non è pensabile più per tutti/e, come ha fatto finora la tradizione religiosa, illuministica, idealistica e poi socialista e comunista?   E’ diventata troppo stretta (come la crisi dimostrerebbe)? L’affermazione della mia libertà comporta per forza di cose la limitazione di quella altrui, come ha sempre sostenuto il pensiero liberale? E’ impossibile praticare una libertà che non escluda o emargini l’ ”altro”?

Nel caso di cui stiamo parlando, i rapporti diseguali e gerarchici tra uomini e donne  sono di estrema complessità. La “coperta della libertà”  copre certe donne (non tutte!)  e copre certi uomini (non tutti!). Certi settori del mondo femminile (estremamente differenziato al suo interno quanto lo è il mondo maschile!) oggi sembrano nella posizione più favorevole per tirare la coperta della libertà più dalla loro parte (e parlano, appunto, di «libertà femminile»), ma sorvolano che, così tirando, lasciano scoperti – diciamocelo – certi settori sia maschili che femminili della società. E sarebbe ipocrisia o finzione dire che non è così. Perciò, non è che «le donne “che si propongono”, vengono viste come una minaccia, sono cioè sentite “più forti”». Se per l’evoluzione delle società (capitalistiche!) certe donne (come lobby o gruppi organizzati abbastanza ampi) riescono a fare cose che le loro nonne o madri neppure si sognavano di fare, è perché questi gruppi di donne sono più forti o si sono convinte di essere più forti. (Anche perché spalleggiate da certi settori di  uomini più o meno potenti e in vista nei campi dell’economia, della politica e  della cultura). Ma a me pare indubbio che la loro forza viene sottratta sia ad una parte degli uomini sia ad una parte delle donne. E qui andrebbe aperto tutto un discorso perché il potere, sia tra gli uomini sia tra le donne, non è qualcosa di compatto ma molto differenziato.

Invece che l’ideologia delle donne come “sesso debole” s’imporrà l’ideologia delle donne come “sesso forte” (e toccherà agli uomini diventare quello debole)? Può darsi. Si vedrà. La posta in gioco (ideologica però, il che non è irrilevante, ma neppure decisivo per parlare di vera “rivoluzione”) è questa.
Soluzioni prestabilite o inevitabili, secondo me, non ce ne sono. Non so se basteranno le cose che (idealmente) accomunano uomini e donne ad evitare la prospettiva di uno scontro “finale” o “mortale” tra i sessi (come pensano alcune femministe radicali). Non so se si imporranno soluzioni intermedie, di compromesso, più o meno “sostenibili” (come pensano altre). Nulla è inevitabile. Abbiamo visto che fine ha fatto – per ora, a voler essere prudenti e a non pregiudicare il futuro – il comunismo, da molti pensato come necessario, iscritto nelle cose o addirittura nella natura. E notevoli e insospettabili sono state anche le trasformazioni del capitalismo, che alcuni ritenevano destinato al crollo o “naturale”. Molte cose accadranno che noi non vedremo. La storia riserva sempre sorprese. Ma le sorprese non sono a senso unico (in direzione del “progresso” o della “democrazia”). Per ora quello che mi pare di vedere è un sistema capitalistico normalmente o perennemente “in crisi”, ma capace sia di continue trasformazioni sia di usare a suo vantaggio, nel campo dei rapporti tra uomini e donne, sia le spinte unitarie o erotiche tra uomini e donne sia «quelle che ci dividono». La «libertà femminile» è, d’altra parte, pienamente iscritta in questo sistema. E non più contro di esso, come pareva negli anni Settanta.
Neppure mi convince Emilia [Banfi] quando dice «l’uomo che esercita violenza sulla donna è un uomo molto debole che si è innamorato di una donna su misura per lui». Se l’uomo debole è capace di violenza, non è che la donna debole non sia capace di esercitare violenza in altri modi più nascosti, meno fisici, ma psicologici e forse persino più efficaci. (Come  scrive Annamaria [Locatelli]: « la violenza ha un volto più subdolo, può ammantarsi di tenerezza, di comprensione, di trasferimento delle ambizioni sui figli »). E, dunque, il ricorso alla violenza nelle sue molteplici forme è un tentazione o un mezzo normale di affermazione. Di esso possono disporre sia gli uomini che le donne. Non è che ci sono violenti da una parte e santarelline dall’altra. Né succede che la donna, a differenza degli uomini, s’innamori di uomini reali e non idealizzati. I fantasmi occupano sia le menti maschili che femminili. Certo – va riconosciuto – uccidono più spesso gli uomini che le donne. E questo è segno che il contesto storico (una volta le leggi stesse e il sentire comune) alimenta ancora fortemente le passioni violente degli uomini (cos’è la guerra come istituzione?), mentre le donne, per esprimere le loro passioni violente, devono ricorrere ancora a mascheramenti più sottili.

Concludendo. Se vogliamo stare alla storia e ai suoi conflitti, a me pare che la «libertà femminile» sia un’ideologia di copertura. Come tutte le ideologie copre interessi di parte. E proclama come universale una libertà che non lo è e non lo può essere – come ho detto – date le premesse teoriche del femminismo. Se, invece,– scusate l’ironia, ma questo è il mio pensiero – vogliamo svolazzare o sperderci nei cieli dell’ideale, allora là tutto è possibile; e tutti/e s’innamoreranno «sempre» senza che ciò « venga vissuto come una “minaccia” da chi riceve» (Giuseppina [Di Leo].
Chi guarda alla realtà (vita quotidiana, storia, sentimenti profondi), capisce presto che i rapporti storici (tra uomini e uomini, tra uomini e donne, tra uomini e natura) non si pongono mai e poi mai in forme idilliache. Innamorarsi sempre» o è uno stato d’animo che si esprime in forme infantili o “poetiche” o platoniche. Oppure, se è pratica reale di vita che s’appoggia su filosofie edonistiche o sulla morale dell’ «ei piace ei lice», sconvolge la vita propria o altrui (cioè di chi si viene a trovare nella scomoda posizione dell’abbandonato/a o del respinto/a). Non prendiamoci in giro. Nessuno ha imparato finora l’arte di rompere un vaso e allo stesso tempo di mantenerlo integro o quasi. L’amore, anche se non lo vogliamo considerare una malattia, è stato sempre in tutte le società elemento “di disturbo”. Produce conflitti, non pace o puro piacere. Può essere anche una malattia “piacevole” e affascinante. Possiamo pure dire che non tutti i mali (o le malattie come questa) vengono solo per nuocere. O portano inevitabilmente alla morte, secondo lo schema romantico della indissolubilità di amore e morte. Possono sia distruggere che costruire. Ma per favore non presentate l’amore come una passeggiata al tramonto su una spiaggia solitaria come negli spot pubblicitari.


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